E noi qui stiamo, e non possiamo navigare, in Aulide. Calcante, indovino, a cui rivolti nella distretta ci eravamo, tale responso diede: che alla Diva Artemide che quivi ha sede, Ifigenia mia figlia sacrificar si dee: sacrificandola, facile il mare avremo, e struggeremo la gente frigia: se non l’immolassimo nulla di ciò conseguiremmo.
Agamennone, Ifigenia in Aulide
Dalla superiorità del divino a quella della macchina
Non è oggetto di sorpresa il fatto che fosse d’uso comune presso i Greci affidarsi al vaticinio degli oracoli, men che meno prima di decidere le sorti di quella che ci è stata raccontata come la più iconica tra le guerre del mondo antico occidentale. Dichiarando la propria finitezza ed incapacità, il greco si rivolge all’indovino perché sia il dio stesso a parlargli, ad indicargli la via da percorrere. Nel gesto di consegna del proprio destino al responso oracolare è evidente l’ammissione di una differenza ontologica insuperabile tra l’uomo e il dio. Su quella stessa insanabile differenza, in un testo dato alle stampe nel 1956 dal titolo L’uomo è antiquato (vol. I), sarebbe tornato Günther Anders, mostrando come, all’indomani della seconda rivoluzione industriale, a rivendicare una superiorità ontologica sull’uomo non fosse più la divinità ma la macchina.
Emblematico, a tal proposito, risulta nelle sue pagine il caso McArthur. 11 aprile 1951. Il presidente Truman solleva dall’incarico Douglas McArthur, generale delle forze ONU nella guerra di Corea, la cui linea militare adottata nella gestione del conflitto avrebbe potuto seriamente condurre allo scoppio di una terza guerra mondiale a trazione nucleare. Ciò che sorprende è, però, il fatto che la responsabilità non gli fu tolta con l’intenzione di affidarla ad una commissione di esperti, più sensibili alle implicazioni sociali e morali che una simile politica avrebbe altrimenti scatenato, ma per consegnarla al giudizio di un Electric brain. La macchina-oracolo venne foraggiata, infatti, «esclusivamente con dati che si prestavano a un calcolo quantitativo, che riguardavano dunque l’utilità o la dannosità, la probabilità che la guerra presa in considerazione aveva di riuscire vantaggiosa o meno; ne conseguì automaticamente che la distruzione di vite umane o la devastazione di paesi poterono venir prese in considerazione e valutate, per motivi di pulizia e chiarezza di metodo, soltanto come grandezze di profitto o di perdita»[1]. Il fatto, poi, che l’esito del calcolo abbia presentato la campagna militare come affare in perdita per l’economia americana, costituisce, per Anders, la più grande fortuna e, al tempo stesso, sconfitta della storia dell’umanità. Nell’abbandonarsi alla sentenza utilitaristica della macchina, se ne riconosce il superiore statuto ontologico: a questa spetta il ruolo del divino nella società della seconda rivoluzione industriale.
Aspetti peculiari della seconda rivoluzione industriale
A questo punto sarebbe opportuno chiedersi cosa intenda propriamente Günther Anders e quali siano le caratteristiche di questa rivoluzione. In primo luogo, non ha nulla a che vedere con ciò che storicamente si intende con la rivoluzione industriale risalente alla metà del XIX secolo. A differenza di quest’ultima, infatti, l’oggetto problematico non è la modalità di produzione o tantomeno i rapporti di produzione, quanto il prodotto stesso, la macchina. Produttore e operaio non costituiscono più i due poli del sistema e il secondo non ne è l’unica parte lesa; piuttosto sono ora accomunati nella pratica dell’uso e del consumo di macchine e di prodotti delle macchine. Sarebbe alquanto irrilevante parlare, infatti, del ruolo della televisione o del rischio rappresentato dalla bomba atomica, introducendo una differenza tra mondo borghese e mondo operaio. Come è evidente, le condizioni storiche e sociali per l’avvento di questa rivoluzione non sono sorte di recente; ma se quest’ultima «ha già accumulato da tempo le premesse materiali di queste metamorfosi […], l’anima ha progredito di pari passo con queste premesse che si modificano quotidianamente? Nemmeno per sogno».
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Dislivello prometeico e vergogna prometeica
Dal rapporto che l’individuo intrattiene con la macchina, segue dunque una seconda e più significativa caratteristica, analizzata nei termini di dislivello prometeico. Con questa espressione ci si riferisce ad uno scarto tra due prodotti: l’uomo contemporaneo e la macchina. Questa frattura insanabile consiste nell’incapacità umana di accordarsi con la velocità di trasformazione e la possibilità di continui aggiornamenti e perfezionamenti dei prodotti della tecnica; l’esito tragico è un’asincronizzazione irrisolvibile e destinata a farsi ogni giorno più marcata. Dall’impossibilità di raggiungere i suoi prodotti deriverebbe quella che Anders definisce vergogna prometeica, vale a dire un profondo senso di inadeguatezza ed inferiorità ontologica nei confronti dei prodotti di cui noi stessi siamo, dopotutto, artefici ˗ secondo quello schema descritto da Sant’Agostino come l’aberrazione classica dello scambio nell’attribuzione di onori alla cosa fatta rispetto che al fattore.
A rendere insanabile il dislivello e la vergogna che ne consegue sarebbe allora la costituzione stessa dell’essere umano in quanto dotato di un’origine (letta come colpa inespiabile), costretto a dovere la sua esistenza «al processo cieco, non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita». Di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti, l’umano ha compassione del suo essere un prodotto difettoso per costituzione in quanto non programmato fin da principio nei minimi dettagli e tantomeno passibile di continuo perfezionamento. Il classico rifiuto lascia qui il posto ad un’inedita volontà di reificazione.
Naturalmente, lungi dall’accettare pacificamente la discrepanza ontologica tra sé e i suoi prodotti, l’essere umano tenta disperatamente di guadagnare terreno e ridurre l’abisso, affidandosi alle nuove opportunità prospettate dallo Human engineering. In questa pratica, letta come possibilità di applicare la meccanica ingegneristica al corpo umano per ottenere una sorta di nuova entità ibrida uomo-macchina, è possibile intuire la soglia-limite di un processo di disumanizzazione. Nel sottoporsi a pratiche ed esperimenti simili, molto in voga all’indomani del secondo conflitto mondiale, Günther Anders ravvede il tentativo disperato dell’uomo di trovare rimedio alla macchia dell’origine tramite la possibilità di migliorare ciò che da sempre ha costituito il suo primo e insuperabile limite, il corpo. Se con Kant eravamo soliti associare il concetto di critica nel senso di delimitazione dei confini umani al fine di potersi meglio conoscere, l’uomo contemporaneo indaga gli stessi limiti con la pretesa di disfarsene una volta per tutte, portando sempre più in là l’asticella del poter fare, anche su sé stesso: la fatalità del limite rappresentato dal corpo perde qui il suo carattere di necessità.
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Risignificare la mortalità
A celarsi dietro queste considerazioni è in realtà il rapporto che una simile concezione del corpo permetterebbe di modificare con la categoria da sempre problematica della mortalità. Perché, parimenti alla sua origine, l’uomo ha vergogna in massimo grado del suo essere costituito di un materiale di pessima qualità, estremamente soggetto ad una deteriorabilità ˗ finora ˗ senza via di scampo. In altre parole, l’unicità del corpo dell’essere umano non partecipa del nuovo concetto di immortalità ad appannaggio esclusivo delle macchine. Con immortalità, Günther Anders intende, infatti, la reincarnazione industriale rappresentata dall’esistenza in serie, potenzialmente infinita, dei prodotti. All’unicità del corpo, nonché alla sua caducità, fa da contrappunto l’intercambiabilità dei prodotti e dei materiali di cui è composto, tanto da poter parlare di quella recente come dell’epoca del platonismo industriale, in cui i prodotti non sono altro che copie in serie di un modello che però non può rivendicare, in quanto copia anch’esso, il carattere ontologico di cosa in sé. Così, contrariamente all’incendio della Biblioteca di Alessandria, il rogo di libri ordinato nel 1933 da Hitler non comportò la perdita di una sola pagina: si trattava solo di alcune copie assolutamente sostituibili di un modello immortale.
L’uomo non condivide, evidentemente, questo statuto ontologico, è copia e modello solo di sé; ma mai nella storia mondiale era stato condotto con un tale rigore un simile tentativo di rifiuto della propria unicità. Come osserva Günther Anders, predicendo una delle pratiche più in voga del XXI secolo, si possono rintracciare le ragioni moderne dell’esplosione dell’iconomania, cioè della produzione incontrollata di immagini, nel tentativo di porre rimedio a questa stessa macchia dell’unicità. Almeno in effige, nell’esistenza in serie di foto, e diremmo oggi, di selfie che ci ritraggono, possiamo concederci il lusso di partecipare dell’immortalità dei prodotti.
[1] Anders, Günther, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale (1956), trad. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri: Torino, 2003.
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