Era da un anno che i melomani di tutto il mondo attendevano trepidanti le quattro recite del Guillaume Tell prodotto dal Rossini Opera Festival di Pesaro. Grande attrazione il debutto europeo del tenore Juan Diego Florez nel ruolo assassino di Arnold e, ad aumentare aspettative e speranze, l’esecuzione monstre in versione integrale,ormai una rarità viste le quasi cinque ore di (sublime) musica. Era così naturale aspettarsi, alla prima dell’11 agosto, un’Adriatic Arena tutta esaurita, ma non era nemmeno lontanamente immaginabile lo spettacolo geniale ideato dal regista Graham Vick per quest’opera che parla di libertà, popolo e natura. Fin dall’ingresso in sala è evidente che ci si trova di fronte ad una rilettura: non deve essere tanto questo a stupire, dato che Vick ci ha abituati a tale genere di spettacoli, quanto il fatto che sul sipario spicca, su sfondo bianco e naturalmente rosso, un enorme pugno chiuso. Il riferimento politico è più che eloquente. Guglielmo Tell e comunismo? Cosa c’entrano? ci si chiede. Poi l’opera inizia: se spazialmente ci si trova in un’ampia stanza bianca, in cui risalta la scritta “EX TERRA OMNIA”, l’ambientazione temporale è fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, ma per volontà di Vick l’antico si fonde con il moderno, di fianco alle balestre si notano le cineprese con cui gli austriaci oppressori filmano in maniera ossessiva ogni istante della loro vita di tiranni. Come non pensare ai filmati provenienti dai campi di concentramento, dai lager, realizzati da gerarchi nazisti maniaci della documentazione e della prevaricazione. Man mano che il Guillaume Tell prosegue, le intenzioni del regista vengono a galla sempre più forti: egli ha voluto mostrare la nascita del processo di ribellione di una classe contadina contro una borghesia dai tratti diabolici. Vetta assoluta è stato il terzo atto: durante una lunga sequenza di danze Vick ha mantenuta altissima la tensione mostrando le depravazioni di una borghesia aristocratica, mettendone in luce i molti tratti infernali. E il popolo, contadino e proletario, legato a quella terra che per l’invasore/sfruttatore è solo sporcizia, è costretto a subire angherie di ogni tipo, fino all’umiliazione sessuale, che non risparmia nemmeno i bambini. Per fortuna arriva Guillaume Tell, fazzoletto rosso al collo e barba alla Che Guevara, a rifiutare l’inchino dimostrando così che una ribellione è ancora possibile. Nella lettura del regista inglese i patrioti diventano partigiani, la difesa della Nazione diventa strenua lotta per la terra, per non perdere le proprie radici. E’ nell’attaccamento del popolo, vero protagonista dell’opera come notato dallo stesso Vick, al suolo, alla campagna non idealizzata ma tangibile, lavorata da mani callose, che si respira la Natura così potentemente presente nel capolavoro rossiniano. Non è la Natura oleografica vecchia di un secolo, esistente di per sé, ma è la Natura rapportata con la sua gente, vista come madre e sorella dell’uomo. Molti si sono interrogati riguardo ai cavalli finti del secondo atto, prima cavalcati dagli austriaci/borghesi durante le riprese della cinepresa, poi divelti dal popolo, trasformati in barricate su cui svettano bandiere rosse. Io ritengo che essi simboleggino al meglio la contrapposizione fra le due diverse classi sociali, fra i differenti modi di intendere il mondo: per gli oppressori l’artificio, la tecnologia e la finzione plastificata sono il futuro, possono sostituire benissimo campi coltivati e pascoli erbosi, mentre il popolo non ci sta, il popolo non vuole perdere la propria identità così legata a certi paesaggi. “EX TERRA OMNIA”, dalla terra tutte le cose, a significare l’importanza di questo elemento primordiale, e anche l’origine delle rivoluzioni, e cioè il basso, i poveri. Me lo ha confermato lo stesso Vick, con cui ho avuto un colloquio durante l’intervallo. Ma lo capisce anche il giovane Arnold, inizialmente affascinato dalla divisa nemica, che poi decide di cingere il fazzoletto rosso, alzare il pugno e guidare alla vittoria la ribellione. E l’aria di Arnold è stato il momento più poetico dell’intera serata, con un filmato a mostrare l’infanzia semplice, fra orti e prati, di questo eroe rivoluzionario. Arnold, già. Con quale voce deve cantare Arnold, il tenore vocalmente più problematico fra quelli ideati dal sadico Rossini? Il primo interprete fu Nourrit, contraltino creatore anche della parte acutissima, argentina di Ory. E Florez è il migliore dei contraltini, a mio avviso non solo di questo tempo. Il problema è che Arnold deve essere dotato sì del canto alato e frizzante in cui Florez fa meraviglie, ma deve possedere anche accento trascinante, una certa dose di veemenza, specie nella celeberrima cabaletta del quarto atto, troppo spesso più croce che delizia. Alla luce della recita pesarese, è emerso che Florez non può essere l’interprete di riferimento assoluto in questo ruolo, ma ritengo comunque che si sia avvicinato a questo non facile traguardo. Il suo Arnold sa porgere la frase con un’eleganza di cui nessun altro tenore è capace, nell’abbandono amoroso il legato è di una bellezza eterea. Pulitissima la linea di canto, centrati gli acuti come tiri perfetti di cerbottana. Non saprei indicare un cantante contemporaneo la cui perfezione tecnica superi quella di Florez, e anche fra le glorie del passato mi trovo in difficoltà. Purtroppo (o per fortuna) la parte, come già detto, è di una difficoltà mostruosa, e nonostante la bravura Florez è giunto evidentemente affaticato al termine della cabaletta “Amis, amis secondez ma vengeance”, il cui acuto finale è uscito non senza difficoltà. Ma l‘aria precedente “Asile hereditaire”, quella che tutti aspettano, è stata cantata in maniera fantastica, con trasporto e tenerezza, perfette le note alte, sufficientemente sostenute quelle gravi, con varietà d’accenti a valorizzare la singola parola. Le lunghe linee melodiche del pezzo, poi, sono state levigate con la maestria di un Canova. Io penso che per tre minuti di cabaletta, in cui è uscita la fatica che un simile ruolo porta inevitabilmente con sé, non si possa mettere in discussione una prova di cui sicuramente si parlerà ancora fra anni. Nel ruolo di Guillaume mi è invece sembrato non troppo a suo agio Nicola Alaimo: è sicuramente un bravissimo cantante, la parte da lui ricoperta è di una statura davvero elevata, e per affrontarla ci vuole un gigante. Alaimo non è riuscito a entusiasmare, e anzi in alcuni passi si notava una certa fatica nel registro grave. Per quante elucubrazioni possano fare i vari vociomani, sono dell’idea che sia più difficile trovare un buon Guillaume che un ottimo Arnold. Sono invece rimasto piacevolmente colpito dalla Mathilde di Marina Rebeka, dotata di uno splendido timbro adattissimo al canto legato nelle zone medio-acute. Quando la tessitura scendeva la Rebeka si scopriva un po’ più in difficoltà, ma grazie a una buona tecnica ovviava anche a questo problemino. L’interprete non è ancora maturissima, in certi passaggi è quasi fredda, ma in certi altri colpiscono i pianissimi efficaci e le smorzature mai forzate. Al di fuori del trio di protagonisti merita una citazione speciale Amanda Forsythe, impegnata in Jemmy, che in questa versione integrale dell’opera si trova spesso a dover gestire una vocalità impervia, con saliscendi nervosi. La Forsythe, nonostante un volume tutt’altro che imponente, viene bene a capo di queste parte. Eccellente Simone Alberghini, un vero e proprio lusso come Melchtal, il quale compare solamente nel primo atto, e un lusso anche l’Edwige di Veronica Simeoni. A Simon Orfila, Walter, va il merito di aver reso indimenticabile con Florez e Alaimo (qui al vertice della sua serata assieme al potente finale del terzo atto e allo splendido duetto con Arnold del primo atto) il terzetto “Quand l’Helvetie est un champ de supplices”; Luca Tittoto è stato un Gesler ottimo anche nella recitazione.
Ma uno dei punti di forza di questo Tell è stato il direttore Michele Mariotti: io sarei veramente contento se la si finisse di fare illazioni sulla sua parentela (stretta: è il figlio) col sovrintendente del Rof. Mariotti è il migliore fra i giovani direttori italiani, e nonostante l’età non si tratta più di una promessa ma di una consolidata realtà. La maturità della sua lettura è impressionante, specialmente per la varietà caleidoscopica con cui colora la meravigliosa Orchestra del Teatro Comunale di Bologna: ciò che colpisce è l’attenzione per il dettaglio, il cesello raffinatissimo, da cui fiorisce la monumentale struttura generale dell’opera. Mariotti avvolge il suo Guillaume Tell in un’aura lucente, si respira la natura svizzera, ma anche le inquiete vibrazioni dei personaggi, i balletti sono un capolavoro osservato al microscopio. Il finale cresce sempre di più, sempre di più, e sfocia in un tripudio cosmico che è probabilmente la cosa più emozionante che abbia mai sentito in teatro. Menzione d’onore per il Coro del Comunale di Bologna, impegnato con successo in pagine splendide e difficilissime.
Al termine entusiasmo incandescente per tutti, escluso Vick. Che la sua lettura abbia dato fastidio al pubblico così poco “rivoluzionario” della prima? Sicuramente chi ama il teatro vero non è stato deluso, perché Vick sa coniugare perfezione formale e profondità concettuale. La giusta moneta con cui ripagare un’opera che ci offre una musica di sublime fattura.
Michele Donati