La produzione di Giovanni Peli è estremamente ricca e variegata: si passa dalla poesia al romanzo, ai racconti per bambini alle canzoni. Peli è quello che si definirebbe un artista a trecentosessanta gradi, capace di destreggiarsi nei diversi campi con una grande naturalezza. Questo è dimostrato anche dalla frequenza delle sue pubblicazioni. Si pensi che tra il 2018 e il 2021 sono uscite ben tre raccolte di poesie (Onore ai vivi, Incontro al tuono vicino e La vita immaginata), due dischi (Sette giorni e Il tessitore con il jazzista Emanuele Maniscalco) e un romanzo (Sulla soglia con Stefano Tevini). Inoltre, è fondatore della casa editrice Lamantica che si contraddistingue per la sua grande attenzione nelle scelte editoriali, pubblicando – fra gli altri – diversi poeti contemporanei. Lamantica ha poi anche tradotto per la prima volta in Italia opere di autori del calibro di Agota Kristof, Blaise Cendrars, Henry Miller e Yorgos Yatromanolakis.
La linea sottile tra poesia e prosa in Giovanni Peli
Nonostante Peli si cimenti – come anticipato – anche nella prosa, è e rimane intrinsecamente un poeta. Se analizziamo Onore ai vivi e La vita immaginata, i versi sono intermezzati da pagine e pagine di prosa, tali addirittura da diventare protagoniste di alcune sezioni. Ma la prosa di Peli è innanzitutto poetica. Senza scomodare domande dalle risposte nebulose e piene di retorica quali «chi è il poeta?» e «cos’è la poesia?», potremmo dire che Peli vive di suggestioni. L’autore documenta la propria vita con leggerezza, ma anche con estrema cura e gusto dei dettagli. Come Chris ne Il giardino delle delizie di Lech Majewski documenta le proprie esperienze con una videocamera, Giovanni Peli fa lo stesso con il dono della parola. A leggere i suoi libri si ha l’immediata impressione che si aggiri instancabilmente fra i meandri della sua vita con un taccuino stracolmo di annotazioni e una penna consunta. I suoi sono i passi del viaggiatore instancabile, tuttavia capace di godersi e riflettere sui singoli attimi che la giornata cela in momenti più o meno eclatanti. Peli è studioso dei piccoli gesti, spontanei che rifuggono qualsiasi voglia artifizio o sterile sperimentazione. La sua connotata propensione al dettaglio, tuttavia, porta all’analisi curiosa di ogni fenomeno e percepisce anche il più piccolo gesto come annunciatore di apocalisse. La tanto agognata soluzione parrebbe, dunque, «il regno dell’oscurità». Il resto è, però, il dono della vita, dedicato alla comprensione dell’io e dell’altro. Quindi, creatività e procedimenti translinguistici diventano un espediente per sopravvivere e – in un certo senso – rivivere nella memoria collettiva.
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Dalla lettura emerge come Peli abbia la primaria necessità di tradurre in scrittura le connessioni che legano tutte le persone, gli oggetti e gli eventi in questa realtà. L’occhio perspicace del poeta guarda nel caleidoscopio dell’esistenza ed è coscientemente attratto dai suoi fantastici e mutevoli arabeschi. Eppure, ogni singolo movimento – seppur impercettibile – viene immortalato e incasellato in un componimento. Ed è così che ogni fotogramma va poi a costituire il labile mosaico della vita di noi tutti.
«Onore ai vivi»
Sia Onore ai vivi sia La vita immaginata si collocano nel panorama così delineato. Nonostante due anni dividano le due opere, esse sembrano parte di un unico e coerente progetto. Prima di tutto, la vita personale di Peli è preponderante in entrambe, tanto da sfociare – in alcuni punti – nella poesia confessionale. Ma i toni non sono per nulla leziosi o pietosi, anzi; la poetica è limpida, a tratti malinconica, ma contraddistinta soprattutto da una verve esuberante.
Onore ai vivi, scritto in occasione della gravidanza della compagna, assiste passo dopo passo alla nascita del figlio «di millimetro in millimetro». Siamo di fronte alle speculazioni cliniche – ma non prive di affetto – di un padre che è prima di tutto uomo con le sue idiosincrasie. La venuta di un figlio è come se costringesse l’autore a ripercorrere gli insegnamenti che la vita gli ha impartito, in modo che lui possa poi comunicarglieli con un dolce canto – quasi come una ninnananna personalissima. Il figlio diviene allo stesso tempo un altro-io del poeta, ma più puro – ma inevitabilmente più ingenuo – in quanto non entrato in contatto con le crudeltà del mondo. Perché la vita è colma di insidie quotidiane, da fronteggiare con empatia e sensibilità: «l’astuto viene vicino e mi frega/ prego che torni ho ancora/ tutto me stesso da dargli/ voglio il suo bene/ e la mia tranquillità». Come suggerisce il titolo, si tratta di un omaggio alla vita nelle sue mutevoli sfumature, ma è anche un avvertimento per sottrarsi alle lusinghe del mondo e riecheggia come un monito il verso «è l’effetto del prestigio che va demolito». E il libro diviene così un inno ai puri, intesi come poeti – non tutti gli uomini potenzialmente lo sono? – che ammettono di odiare le ipocrisie, ma comunque risultano capaci di perdonare e amare. E la citazione del saggista Yuval Noah Harari in epigrafe all’opera – «Una realtà immaginata non è una bugia» – è il preludio che fermentando nei mesi successivi ha prodotto quel prezioso libretto che è La vita immaginata.
«La vita immaginata»
E proprio con quest’ultimo lavoro – scritto durante il primo lockdown –, l’autore riesce a condensare la propria poetica in un centinaio di pagine rivelatorie. Per riprendere la postfazione di Massimo Morasso: «Leggendo capita di percepire che il destino del singolo uomo non esista, giacché il destino di ciascuno di non è, in fondo, che l’avventuroso riflesso del cammino di una comunità». Disseminato da prose brevi che a volte tratteggiano un futuro assurdo – lavoro che in parte confluirà in Sulla soglia –, a volte ancora si improvvisano eclettici saggi clinici a carattere filosofico. Si pensi, ad esempio, al passaggio in cui l’autore scrive: «Il tempo accumula i pregiudizi e infetta il pensiero, la nostra stessa cultura, che si accresce attraverso informazioni non supportate dalla saggezza, crea pregiudizi».
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La vita immaginata è, innanzitutto, un lavoro estremamente versatile dove il padre – l’autore – questa volta dialoga e gioca con il figlio che abbiamo visto nascere in Onore ai vivi. Ma il lockdown, con il progredire inesorabile della natura sulla città, porta anche ad amare riflessioni durante la clausura fra le mura domestiche e le continue passeggiate nel giardino «campo di battaglia». Il giardino, in particolare, diviene fonte inesauribile di ispirazione e microcosmo sicuro arginato da siepi. «Scrivo versi da venticinque anni. Un percorso verso l’insignificanza. La vita non è un poema epico». La rassegnazione e la sfiducia, così, prendono addirittura il sopravvento («C’è un foglio di carta nero che separa ogni mio pensiero»). Anche in questo caso, Giovanni Peli affronta le diatribe di un mondo di cui fa inevitabilmente parte ma non sente suo. Come un’eremita porta nel suo immaginario fagotto gli affetti che la vita gli ha regalato, senza però dimenticare ciò che è stato e sarà. L’autore affronta una metamorfosi continua, rimanendo però inalterato. I versi sono suoi, la mente che gli ha elaborati è quella, ma fra gli spazi bianchi della pagina si scorge sempre la magnifica scintilla del cambiamento.
In conclusione a Giovanni Peli
La scrittura diviene così terapeutica e necessaria per comprendere ogni fase dell’esistenza. La stesura di un verso – seppur poca cosa, apparentemente – è un piccolo atto rivoluzionario. Per citare un altro riferimento cinematografico, è utile riprendere le parole di Alexander ne Il sacrificio di Andrej Tarkovskij:
Un metro, un sistema ha il suo valore. […] A volte io mi dico che se ogni giorno, esattamente alla stessa ora, uno compisse la stessa azione – come un rituale – nello stesso identico modo, sistematicamente, ogni giorno alla stessa identica ora, il mondo cambierebbe. Sì, qualcosa cambierebbe, senz’altro cambierebbe.
E Peli crea continuamente, compiendo la sua ciclica azione generatrice ogni giorno.
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Ritratto fotografico di Giovanni Peli in prosperoeditore.com