Nel volume Alexandria Ocasio-Cortez: la giovane favolosa (People, 2019) Francesco Foti ci restituisce la biografia di uno degli astri di punta della politica americana contemporanea: Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane deputata donna mai eletta al Congresso e recentemente rieletta per il secondo mandato.
AOC: coraggio e intelligenza politica
L’ingresso della giovane ventottenne nella scena politica americana avviene in occasione della schiacciante quanto sorprendente vittoria alle primarie democratiche del 2018 nel 14° Distretto di New York contro il favorito Joseph Crowley. Solo qualche mese dopo, precisamente il 6 novembre 2018, Alexandria Ocasio-Cortez — meglio nota all’universo social con l’acronimo AOC — diventa la donna più giovane mai eletta al Congresso nella storia degli Stati Uniti d’America. Perché ne parliamo ancora oggi? Per due ragioni. La prima: la figura di AOC ed il suo modo di narrare e fare politica sono quanto di più distante dagli standard posti dall’establishment e che abbia mai avuto accesso a un’aula congressuale americana: un fattore che ha spogliato quello stesso establishment della patina di impunità e invulnerabilità di cui godeva agli occhi dei più reazionari e non. La seconda: quelle stesse modalità, nel cucire in prospettiva olistica ingiustizia economica, sociale, ambientale, sanitaria, lotta nelle aule e nelle piazze, singolare ed universale, hanno dimostrato di costituire non solo un modo possibile di fare politica, ma l’unico modo possibile di farla bene in un mondo lacerato da conflitti sistemici che richiedono l’intelligenza e il coraggio di strategie organiche, critiche, lungimiranti e sostenibili per la propria risoluzione.
Come sostiene Marianna Aprile, penna della prefazione:
Quel che oggi dovrebbe interessare del fenomeno AOC è che non si tratta di un fenomeno ma di un epifenomeno. La prova dell’esistenza in vita di anticorpi democratici in grado di reagire anche alle più brutali e repentine svolte destrorse e becere, offrendo un orizzonte nuovo. Una visione in grado di reinterpretare istanze e principi tradizionalmente di sinistra, senza rinnegarli o rinegoziarli al punto di stravolgerli e farli sembrare bipartisan o, peggio, quasi di destra.
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Sfidare l’establishment
Ma procediamo con ordine. Come accennato, a sconfiggere i grandi capitali alle spalle di Joseph Crowley nel 2018, dunque, è nientemeno che una ventottenne di origine portoricana nata nel Bronx e appartenente alla working class. Quella di AOC è una favola urbana: da cameriera nei pub newyorkesi per ripagare il debito contratto per conseguire la laurea in Economia e Relazioni Internazionali ai banchi delle aule congressuali. È la storia — documentata dalla regia di Rachel Lears in Know Down the House (Netflix, 2019) — di una “giovane favolosa” che per vincere osa sfidare l’establishment. E se poco prima che il tuo tacco dieci sfiorasse la scalinata del Congresso facevi la lavapiatti e shakeravi margarita in turni anche di diciotto ore al giorno, stai certa che l’establishment ne farà un pretesto per sminuire la tua vittoria. Non dirà che hai vinto perché sei stata brava, perché hai avuto più coraggio e intelligenza politica di altri, ma dirà che hai vinto solo perché il 14° Distretto è costituito per il 70% da persone di colore. Che hai vinto solo perché ti hanno votato i non bianchi come te.
Ma le ragioni per cui AOC surclassa con il 57.5% il suo avversario non sono certamente demografiche. AOC vince perché fronteggia l’establishment prescindendo finalmente dai suoi schemi e portando al voto un bacino elettorale nuovo: «non si battono i grandi capitali con i capitali, bisogna cambiare schema […]. Loro hanno i soldi, noi abbiamo le persone». E la campagna di AOC, infatti, soggetta a posteriori tentativi di imitazione in tutto il mondo, sarà frutto di una simbolica rinuncia ai finanziamenti di grandi nomi o corporazioni e condotta unicamente dal basso (“grassroots”, in gergo). Nei mesi precedenti alla sua elezione, AOC e il suo team effettueranno centinaia di migliaia di telefonate, inoltreranno centinaia di migliaia di SMS, busseranno a centinaia di migliaia di porte per sensibilizzare l’opinione pubblica ai temi oggetto del proprio programma elettorale. Terminata la campagna, la deputata replicherà ai detrattori con la semplice fotografia di un vecchio e logoro paio di scarpe di tela. L’acquisto delle scarpe in questione, tutt’altro che datate, risale al periodo antecedente al proprio esordio da candidata. I fori, le suole consunte, la sporcizia che ne imbratta la tela sono frutto delle centinaia di miglia percorse a piedi per le attività di volantinaggio e propaganda porta a porta.
Alcuni dicono che ho vinto per ragioni “demografiche”. Primo, questo è falso. Abbiamo vinto con ogni genere di elettori. Secondo, il primo paio di scarpe che ho comprato per la campagna sono fruste e bucate. Ho bussato alle porte fino a quando la pioggia non mi entrava nelle suole.
(@AOC, Twitter 29 giugno 2018)
Abbiate rispetto del mazzo che ci siamo fatti. Abbiamo vinto perché abbiamo lavorato più dei nostri contendenti. Punto.
Per una politica dell’universale
AOC vince e ha successo per una ragione che parrebbe già risiedere nell’acronimo con cui è nota al mondo, sintomo, nell’interpretazione dell’autore, della più generale volontà di anteporre l’universale al singolare che ha costituito uno degli elementi basilari della sua campagna:
Una pacifica rinuncia all’identità individuale (il nome) a vantaggio di una sigla (qualcuno azzarderebbe: un logo) a disposizione di chiunque si riconosca nella comunità che lei ha deciso di rappresentare. In un esercizio virtuoso, fertile e circolare della fiducia. Il più potente degli anticorpi della democrazia.
Il suo personaggio risulta assolutamente credibile poiché credibile è la continuità imbastita tra ideali politici e vita concreta, corroborata dai social, che nella proposta di Alexandria Ocasio-Cortez divengono vere e proprie piattaforme narrative in grado di tele-trasportare fuori dalle sedi istituzionali i temi e le controversie animanti il discorso politico americano. I social, nell’uso che ne fa AOC, divengono «finestre sul discorso pubblico reale non filtrato dai media; non sono, quindi, una gara di popolarità fine a se stessa, né uno strumento di vanità, come sembrano essere per molti dei politici – anche di casa nostra».
AOC, in breve, rimette la politica in mano al suo oggetto, la cittadinanza, professando una fede radicale nel potenziale trasformativo dell’agire comunitario — laddove comunità è da intendersi, in senso tönniesiano, come quel luogo in cui «gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, [mentre nella] società essi restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono» (Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 1887). La fede nell’agire comunitario e nella comunità, nonché il proprio spendersi strenuamente e concretamente per essa, divengono dunque cifra sostanziale della sua sintassi politica, rendendo Alexandria Ocasio-Cortez una figura con e per la comunità, fuori e dentro le aule congressuali, vicino e lontano dai riflettori. È opinione della deputata, difatti, che a fronte dell’interconnessione tra (in)giustizia sociale, ambientale, sanitaria, ogni prospettiva perseguita a livello meramente personale rischia di risultare inefficace: nessun politico è la risposta, come non lo è alcuna carica politica specifica. La risposta per Alexandria Ocasio-Cortez, al contrario, risiede nei movimenti di massa, nella mobilitazione di milioni di persone rese sensibili alle grandi sfide in materia di sostenibilità — e ad ampio spettro — lanciateci dalla nostra contemporaneità.
La giustizia non è mero compito della giurisprudenza, delle leggi, dei tribunali. Giustizia è la qualità del cibo che mangiamo, è la nostra possibilità di disporre del denaro per acquistarlo. Giustizia è la qualità dell’aria che siamo costretti a respirare. Giustizia è il nostro diritto di voto e quanto ne viene reso agevole l’esercizio. Giustizia è la dignità e la parità dei nostri salari, giustizia è l’educazione che riceviamo, ma soprattutto, a volte, «è assicurarsi che essere educati non significhi restare in silenzio, perché al contrario molte volte la cosa giusta da fare è rovesciare il tavolo».
È forse per questo che la strategia e la visione di AOC risultano vincenti. Perché in un mondo dalle tinte sempre più scoraggianti, personalistiche e divisive, ci suggerisce quanto importante sia, invece, ricordare che «siamo qui per occuparci gli uni degli altri»; che la speranza non è qualcosa che si possiede, ma che noi tutti abbiamo la responsabilità di generare e nutrire quotidianamente attraverso le nostre azioni, il nostro modo di sentire, vivere, lottare; e quanto importante sia manifestarla al mondo, perché «la speranza può» e deve «essere contagiosa», nella rarissima misura in cui è proprio il contagio a poterci garantire una guarigione, avvicinandoci all’ideale e alla costruzione di un altro mondo possibile.
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