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La storia di Giordano Bruno, il filosofo dell’infinito

La ferma convinzione delle sue idee gli costò, nel 1600, la condanna al rogo: eppure a lui si devono alcuni dei principali concetti del pensiero moderno. Qual è la storia di Giordano Bruno?

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Il rogo delle idee che ha illuminato il Rinascimento

Il rumore di qualche carretto di legno in lontananza, le voci indistinte del popolo curioso, l’aria fredda dell’inverno, una nuova alba che sta per colorare il cielo di Roma. Il rumore delle catene di un prigioniero, lo scoppiettio di un rogo che si accende e sale. Le fiamme che, prima del sole mattutino, illuminano i volti di frati incappucciati e della gente di piazza. È il 17 febbraio 1600 e su quel rogo, a Campo De’ Fiori, muore il filosofo Giordano Bruno.

Un fuoco accesso da menti scellerate e forse spaventate da un cambiamento che tuttavia non sono riusciti a fermare. Neppure potevano immaginare che quelle fiamme non erano la fine di nulla, ma la dirompente vittoria di un’era che oggi chiamiamo Rinascimento. Bruno è morto, ma le sue idee no. Col sacrificio della vita ne ha dimostrato l’immortalità, anche quella della libertà di pensare. Idee che hanno una lunga storia, iniziata nella Grecia antica, passata per il mondo arabo e poi per l’Europa medievale.

L’ironia di un domenicano divenuto eretico

Ebbene sì. Giordano Bruno – vero nome Filippo – nato a Nola nel 1548, era un frate domenicano, educato quindi dall’ordine monastico più rigido e indottrinato della Chiesa, presso il convento di San Domenico Maggiore a Napoli. Forse sarebbe stato più corretto scrivere “paradosso” del domenicano divenuto eretico, ma “ironia” era un termine caro al Nolano. Sicuramente ripensando alla sua vita, nelle carceri del Santo Uffizio, avrà anche riso del ribaltamento al quale è andata incontro la sua esistenza.

Dopotutto il riso è stata una delle sue armi principali. La dissacrante ironia dei suoi scritti eretici lo ha aiutato a smascherare cialtroni, falsi cristiani, ipocriti, pedanti, nobili ignoranti, teologi votati all’intolleranza, stolti spacciati per saggi, principi furfanti. Da Napoli scappò ben presto, specialmente quando gli trovarono nella cella del convento i testi proibiti di Erasmo da Rotterdam e altre letture non propriamente monacali.

Si spostò dapprima in Italia, insegnando retorica e mnemotecnica (si veda il bellissimo saggio di Yates) qua e là, poi in Francia, dove fu accolto alla corte di Enrico III di Valois, in Inghilterra da Elisabetta I Tudor, soggiornando a casa dell’ambasciatore francese Michel De Castelnau, poi in Germania e a Praga, da Rodolfo II d’Asburgo. A Francoforte infine fu invitato dal nobile veneziano Giovanni Mocenigo a seguirlo in Italia, a Venezia, dove dallo stesso verrà tradito e consegnato all’Inquisizione, prima veneziana e poi romana.

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Gli scritti silenici di Giordano Bruno

Parlare degli scritti di Giordano Bruno è lungo e complesso. Non sono neppure di facile letture, salvo un attento esercizio. Questo perché oltre all’ovvietà del complesso linguaggio volgare cinquecentesco, Bruno stesso ci descrive i suoi scritti come «silenici», riferendosi alla figura mitologica greca dei Silenoi, divinità minori dei boschi, dall’aspetto goffo, brutto e trasandato, le cui statuette, come ci descrive Socrate, erano vendute presso i mercati, ma una volta aperte contenevano bellissime immagini delle divinità.

Cossì dumque, lasciaremo la moltitudine ridersi, scherzare, burlare e vagheggiarsi su la superficie de mimici, comici et istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso e sicuro, il tesoro della bontade e veritade.

Spaccio de la bestia trionfante, 1584

Il filosofo ci informa che dunque nei suoi scritti bisogna cercare, perché al di là del riso, delle bassezze, della parolacce (che non teme di usare), delle battute sconce, sta nascosto un tesoro importante, che solo i saggi, i più accorti, possono cogliere ed interpretare. Giordano Bruno scriveva per i pochi e soltanto in pochi avrebbero compreso il complesso messaggio delle sue opere, nelle quali la commedia, l’ironia, le turpi descrizioni delle realtà più umili e dissacranti, diventano veicolo di conoscenza filosofica.

Considerate ancora che non v’è parola ociosa: per che in tutte parti è da mietere e da dissotterar cose di non mediocre importanza e forse più là dove meno appare.

Cena de le ceneri, 1584

Una produzione immensa e variegata

Sicuramente scarso e riduttivo il trattamento che gli insegnanti di filosofia – come pure i manuali – riservano solitamente nelle scuole superiori al Nolano. A lui si deve una quantità notevole di lavori letterari, tutti a sfondo filosofico e di critica sociale e politica. Scrive una commedia, Il Candelaio, dove con l’ironia e il riso prende in giro i vizi umani, la pedanteria, gli sciocchi innamorati, i ciarlatani. La scrive in volgare, come tutti i suoi dialoghi italiani, dove il realismo letterario sfida ogni censura del linguaggio.

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Nei dialoghi affronta tutti i temi cari alla sua filosofia e alla sua visione civile e politica. Notevole lo Spaccio de la bestia trionfante, dedicato proprio alla politica, alla religione civile, alla società. Poi i dialoghi più strettamente scientifici, De la causa, principio et uno e De l’infinito, universo et mondi, insieme a la Cena de le ceneri, nella quale racconta del suo incontro con gli accademici di Oxford, descritti come pedanti, dei quali si prende gioco spiegando la sua concezione dell’Universo infinito ed elogiando i pensatori classici.

Poi il dialogo De gli eroici furori, una dichiarazione d’amore per la ricerca della verità, il De umbris idearum, pubblicato a Parigi e dedicato ad Enrico di Valois. E ancora il Sigillus Sigillorum, un’opera esoterica sui diagrammi ermetici, il De Magia, la Somma dei termini metafisici, il testo sulla medicina lulliana, il De Monade, le opere matematiche.

I temi cardine di Giordano Bruno

Gli argomenti cari a Giordano Bruno erano tutti quelli che in pieno Cinquecento gli avrebbero offerto, come infatti avvenne, la via più sicura per passare guai seri. L’infinità dei mondi, il relativismo delle idee, la filosofia platonica e neoplatonica, l’ermetismo, la lotta all’intolleranza, la difesa del libero pensiero e della libera ricerca. Ma non solo. La buona politica, la religione che unisce e non che divide, la critica al potere becero e all’insegnamento rigido della Scolastica.

Ma anche l’annientamento delle apparenze e delle forme esteriori, contrapposte all’essenza reale e filosofica delle cose. Perché attraverso l’essenza si percepisce l’intellegibile, perché natura est deus in rebus, e attraverso la natura delle cose si trova il divino. Gli Scolastici e gli intellettuali del suo tempo, per Bruno sono schiavi delle forme, delle parole, delle apparenze.

A noi non conviene l’essere (quali essi sono) schiavi de certe e determinate voci e paroli: ma per grazia de dèi ne è lecito e siamo in libertà di far quelle servire a noi prendendole et accomodandole a nostro comodo piacere.

Spaccio de la bestia trionfante, 1584

Così scriveva contro gli schematismi delle forme e delle definizioni offerte da un mondo rigido, del quale il suo ordine, i Domenicani, furono per secoli estremi difensori. Celebre esempio Tommaso D’Aquino. Nella stessa composizione della sua commedia, Il Candelaio, Giordano Bruno oltre al senso del pudore, all’ipocrisia delle descrizioni sempre idilliache e delicate, alle imposizioni dei buoni cristiani, scardina anche l’antico schema di Aristotele per la scrittura delle opere teatrali. Riforma la letteratura, oltre che la filosofia e parla di filosofia anche in volgare, impensabile prima.

Fondamentale appare senza dubbio lo Spaccio de la bestia trionfante, come si diceva. Probabilmente opera più squisitamente politica e d’impegno civile del Nolano. Bruno parla delle virtù di chi governa, dell’impegno degli uomini nella società, della religione valida a scopo civile, per unire e per premiare i meritevoli, come in Grecia e nell’antica Roma. Lo fa nel momento in cui l’Europa è dilaniata dalle guerre di religione, momento in cui la Chiesa sforna la Controriforma.

Li nostri, de la finta religione, tutte queste glorie chiamano vane […] Non giudicar l’arbore dalle belle frondi, ma da buoni frutti.

Spaccio de la bestia trionfante, 1584

Per il filosofo non conta solo pregare, dirsi cristiani e poi uccidere e mancare di contribuire allo sviluppo sociale, al miglioramento del mondo. Per questo elogiava i Greci e i Romani. In quelle società la religione premiava le virtù civili, le due cose erano collegate. E poi le critiche ai cattivi governi, uno sorta di spartiacque tra il Policratico di Giovanni da Salisbury nel Medioevo ed il Principe di Machiavelli, nel Rinascimento.

Non è errore che sia fatto un principe, ma che sia fatto principe un furfante.

Spaccio de la bestia trionfante, 1584

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Diana e Atteone, l’amore per la ricerca della verità e l’ineffabilità della conoscenza assoluta: siamo ombre profonde

Non si può parlare di Giordano Bruno senza menzionare il bellissimo racconto del mito di Diana e Atteone, adattato dal filosofo nel suo dialogo De gli eroici furori (1585). Il Nolano era neoplatonico, convinto della superiorità delle idee e dell’intelletto rispetto alla materia; convinto che attraverso il sensibile si possa intuire Dio (o l’Uno), che è nella natura, ma solo attraverso l’anima e l’intelletto ci si possa ricongiungere, dopo un percorso di purificazione, di ritorno (credeva anche nella Metempsicosi).

Il mito, noto in età antica e ripreso dalla letteratura e dell’arte infinite volte, racconta del cacciatore Atteone, che attratto dalla dea Artemide (Diana), la segue nei boschi. Riesce a scorgerla nuda, ma questa per punirlo lo trasforma in cervo. Non riconosciuto dai suoi stessi cani, rimane ucciso da questi ultimi.

Per Bruno è l’emblema dell’uomo che insegue la verità, ma che mai potrà possederla, mai potrà avere quella verità assoluta che non è di questo mondo, perché in questo mondo, menzognero e fallace rispetto a quello delle idee platonico, ogni cosa non è che l’ombra della verità, l’ombra delle realtà pure. Ogni verità è relativa, anche se la caccia per la verità non può e non deve finire, poiché l’uomo, il filosofo vive di questo. Dio è nelle cose, attraverso queste si può intuire la verità, ma non conquistarla tutta. Perché in vita umbra profunda sumus, siamo ombre profonde e la nostra verità sarà sempre parziale.

Le fonti di Giordano Bruno

Da dove proviene l’immensa conoscenza filosofica, letteraria, storica e mitologica di Giordano Bruno? Quali sono le fonti dell’uomo che ha preparato l’Europa alla modernità delle idee, avvicinandola al culto della Libertà, che sarà tanto caro all’Illuminismo? Intanto Giordano Bruno aveva una profonda conoscenza dei miti antichi e degli scritti greci e romani. Sicuramente ruolo fondamentale avranno giocato i testi scientifici e naturali, ma anche le Metamorfosi, sia di Apuleio che di Ovidio. Le immagini delle bestie, degli animali, associate ai vizi e alle virtù dell’uomo, care al Rinascimento, ricorrono spessissimo in Bruno.

Notevole spazio nella sua formazione hanno avuto sicuramente tutti gli scritti platonici e neoplatonici, ma anche ermetici ed esoterici. Plotino, Porfirio, Giamblico, Pitagora, i testi Caldaici, i trattati filosofici arabi, passati per Avicenna, Averroé, Al-Kindi e Al-Farabi, il Corpus Hermeticum. La lettura dei suoi scritti fa pensare ad un Bruno profondo conoscitore anche delle tesi che contestava, quindi con una salda conoscenza delle dottrine teologiche e filosofiche cristiane e dei testi biblici.

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Molti scritti ermetici, neoplatonici, scientifici, soprattutto di cultura greca antica e poi araba, gli giunsero per tramite di umanisti decisamente ben preparati a riguardo: da Pico della Mirandola (autore della splendida Orazione sulla dignità dell’Uomo) a Marsilio Ficino. Quest’ultimo fonte sicura di Giordano Bruno – tanto che qualcuno lo accusò di plagio nelle lezioni di filosofia che tenne ad Oxford. Ficino fu il principale traduttore di molti testi neoplatonici, soprattutto dell’Isagoge di Porfirio. Presenti nelle opere anche molti riferimenti danteschi, come intere citazioni riportate dalla Divina Commedia.

Il processo di Giordano bruno, una condanna necessaria, il messaggio di tolleranza e di difesa del libero pensiero

Sarà facile intuire, dopo l’excursus, che di temi per preparare una condanna facile l’Inquisizione ne aveva molti. Dottrine neoplatoniche, infinità dei mondi e dell’universo, filosofia araba ed elogio del valore civile delle religioni pagane, critica al potere, libertà di pensare e di farlo non solo ai fini della fede – come Tommaso D’Aquino insegnava – ma per pura ricerca e crescita umana. Impensabile per l’insegnamento della Scolastica, per una Chiesa minacciata dalla Riforma, per un mondo ancora votato al dogma.

Gli inquisitori – ovviamente Domenicani, che possedevano ottima cultura e spiccate doti oratorie – probabilmente già intimoriti dai futuri esiti della condanna, provarono anche a salvare Bruno, a farlo abiurare, a mediare. Pare che gli sia stata offerta la via della ritrattazione e della negazione delle tesi, alla quale il Nolano, al processo, avrebbe risposto con un secco: Io dirò la verità.

Per il pensatore campano quella condanna era necessaria, per rimarcare la forza della libertà di pensiero e di ricerca, perché le fiamme rammentassero ai posteri la scelleratezza dell’intolleranza, squarciando l’oscurantismo di chi voleva affermare una tesi non contestando quella altrui, ma pretendendo di cancellarla dalla storia, portandola invece inevitabilmente alla ribalda presso i posteri.

Sembra una narrazione lunga, antica e noiosa per il tempismo contemporaneo. Ma forse è la chiave, ora più che mai, per costruire ancora un mondo nuovo, un nuovo Rinascimento. Una nuova età dell’oro, che Giordano Bruno riconosceva negli antichi, nella quale la diversità era confronto e scambio, non censura e guerra; nella quale ciascuno di noi è libero di pensarla a modo proprio, ma sempre pronto a battersi perché l’avversario abbia la stessa opportunità di esprimersi.

Per questo il Nolano ha scelto di morire e di farlo a testa alta, insegnandoci che chi muore per la libertà non lo fa mai invano, perché in questo consiste la dignità dell’Uomo.

Ho combattuto ed è tanto. Ritenni di poter vincere, ma natura e sorte hanno represso studi e sforzi. Ma è già qualcosa essere sceso in lotta, poiché vedo che la vittoria è in mano al destino. Fu in me quanto era possibile e che nessun venturo secolo potrà negarmi. Diedi ciò che di proprio un vincitore poteva dare: non aver temuto la morte, non essermi sottomesso a nessuno che mi fosse simile: aver preferito coraggiosa morte a vita pusillanime.

De Monade, 1591

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Bibliografia essenziale:

  • Michele Ciliberto, Giordano Bruno, 2010
  • Opere italiane di Giordano Bruno, testi critici di Giovanni Aquilecchia, UTET, vol.1 e vol.2
  • Giordano Bruno, Candelaio, a cura di Giorgio Barberi Squarotti, Einaudi
  • Nuccio Ordine, La soglia dell’ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno, 2009
  • Nuccio Ordine, Contro il vangelo armato, 2007
  • Apuleio, Metamorfosi, Rizzoli
  • Frances A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi
  • Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza
  • Gianluca Briguglia, Il pensiero politico medievale, Einaudi
  • Maria Teresa Fumagalli, Pico della Mirandola, Laterza
  • Corpus Hermeticum, a cura di Valeria Schiavone, Rizzoli
  • Machiavelli, Il Principe, Einaudi
  • Ernst Bloch, Filosofia del Rinascimento, Il Mulino
  • Gabriele La Porta, Giordano Bruno, Bompiani
  • Giovanni Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 1920

Paolo Cristofaro

Nato nel 1994, si è laureato in Lettere e Beni Culturali all'Università della Calabria. Presso lo stesso ateneo ha conseguito poi la laurea magistrale in Scienze Storiche, con una tesi di ricerca sul Medioevo. Collaboratore di quotidiani e riviste, è iscritto all'albo dei giornalisti pubblicisti.

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