Il saggio di Gregorio Tenti Estetica e morfologia in Gilbert Simondon è uscito per Mimesis quasi in contemporanea con la ristampa della traduzione del capolavoro simondoniano L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione (entrambi giugno 2020), risalente al 2011 e che non si vedeva sugli scaffali delle librerie ormai da parecchi anni. Si tratta di una congiuntura propizia, questa doppia uscita, che ci si auspica dia nuova vita ad un corso di lavori – quelli attinenti alla ricezione italiana del pensiero di Simondon – che sembrava dover declinare dopo un’iniziale esplosione di pubblicazioni e traduzioni a cavallo tra la fine del primo decennio degli anni duemila e i primi anni di quello appena passato. Un interesse che, certo, non si è mai spento, ma che nemmeno si è imposto come ci si aspettava o sperava potesse accadere.
Gilbert Simondon in Italia
Dopo gli importanti lavori di Giovanni Carrozzini, in primis la traduzione integrale de L’individuazione, e poi il volume su Simondon Gilbert Simondon filosofo della mentalité technique (Mimesis, 2011), che proprio nel problema della tecnica vedeva il centro paradigmatico del pensiero simondoniano, il nucleo a partire dal quale, secondo Carrozzini, avrebbe trovato la propria origine anche la questione più speculativa dell’ontogenesi, ampiamente sviluppata, come si sa, ne L’individuazione – dopo di ciò, si diceva, se si esclude la pubblicazione dei contributi simondoniani Sulla tecnica (Orthotes, 2017) veramente poco si è affermato in Italia dell’opera di questo geniale filosofo. Egli è rimasto, come già scriveva Jean-Hugues Barthélémy nel suo Penser l’individuation (L’Harmattan, 2005, p. 15), «il più conosciuto degli sconosciuti». Eppure quest’immagine, l’immagine di un Simondon prima pensatore della tecnica e poi filosofo speculativo, o filosofo speculativo a partire dalla sua riflessione sulla tecnica, aveva già trovato in Deleuze un oppositore, e poi in Stiegler, che tentava in alcune sue importanti opere un coraggioso superamento di Simondon a partire da Simondon stesso, e nel già citato Barthélhémy, e in molti altri interpreti provenienti soprattutto dal mondo francofono.
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Qualcosa, tuttavia, si muove. Con questo saggio di Tenti (e con la recentissima pubblicazione della traduzione italiana dell’altro capolavoro simondoniano, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici) sembra si apra la strada anche in Italia a un’interpretazione più squisitamente speculativa della riflessione di Simondon, e speculativa, si direbbe, nel senso forte, whiteheadiano del termine, che cioè rivendichi, per la filosofia, pretese cosmologiche, che cioè, ancora, seguendo Rocco Ronchi – che nel suo saggio (Feltrinelli, 2017) sul “canone minore” della filosofia, pur non facendo di Simondon il fuoco della sua riflessione, assegnava a quest’ultimo un posto di tutto rilievo – coaguli nella pratica filosofica un’esigenza di assolutezza, di totalità: l’esigenza di una filosofia della natura.
La morfologia in Gilbert Simondon
La proposta di Tenti in Estetica e morfologia in Gilbert Simondon ha di mira un doppio obiettivo: da un lato, leggere l’opera complessiva di Simondon adottando una prospettiva esplicitamente morfologica, che cioè privilegi gli aspetti teorici della riflessione simondoniana utili a farne una filosofia della forma; dall’altro, più costruttivamente, utilizzare quest’ultima operazione per ripensare la stessa disciplina estetica. Secondo Tenti, difatti, ciò che emerge dal testo simondoniano sull’individuazione – da egli considerato il cardine di tutta la riflessione del filosofo francese – è proprio il tentativo di sviluppare, alla luce di una peculiare concezione dell’essere inteso da Simondon quale centro metastabile di sfasamento, un modello di conoscenza che partecipi esso stesso del processo d’individuazione, e che dunque, individuandosi, conosca.
Da questa prospettiva, l’attività conoscitiva è presa insieme al reale nel movimento diveniente dell’essere, ne è un suo risultato, una produzione, un momento dell’ontogenesi, direbbe Simondon, secondo un’idea di vita e di sapere di chiara matrice canguilheimiana (si pensi soprattutto alla seconda parte de Il normale e il patologico, ma anche ad alcuni saggi contenuti ne La conoscenza della vita), tale per cui è proprio la vita che ripiegandosi su se stessa in qualche modo si conosce, o per meglio dire disegna quelle forme di conoscenza che pretendono conoscerla, giacché
«la forma stessa […] coincide con la sua genesi: non tanto nello stabilire un ordine nel disordine, quanto più nell’instaurare sempre nuovi regimi di vita» (p. 24).
Questo, sembra si possa sostenere, il punto sul quale Tenti decide di far leva nel doppio obiettivo di cui si diceva sopra: estetica, in tal senso, «non è altro che l’esperienza che coglie attivamente gli orientamenti creativi delle forme e le loro forze vive» (p. 13), e, per ciò, «una ʻnuova esteticaʼ […] si ricongiungerà così alla plasticità metamorfica del reale» (p. 14).
Forma
La forma rappresenta allora l’auto-strutturarsi dell’essere in regimi d’individuazione (p. 24), all’interno di un processo genetico che «riprende e costituisce continuamente una trama ontologica» (p. 24), in una progressione (non gerarchica) che va dal livello fisico a quello psichico-collettivo. Alla morfogenesi si accompagna l’evento del senso: esiste un «semantismo prelinguistico» (p. 23), una logica del pre-vivente che continua e si prolunga in tutti i gradi dell’organico, un potere di differenziazione semantica contenuto in quella fase non ancora individuatasi, ma che dell’individuazione costituisce la condizione necessaria, che Simondon chiama “preindividuale”. L’informazione, concetto che Simondon trae dalla cibernetica, è utilizzata da quest’ultimo come un rimedio alla mancanza di dinamismo della Buona Forma gestaltica, un rimedio che indichi nella forma non il raggiungimento di un equilibrio, ma lo sciogliersi di una tensione sistemica che di nuovo ne produce un’altra, metastabile. La forma va anch’essa cioè considerata alla luce della nozione di informazione, intesa come «differenza dei termini messa a sistema» (p. 38), ossia polarità dinamica e istitutrice, utile per l’appunto a «prendere ad oggetto il momento ontogenetico» (p. 18).
Pare possa sussistere una scienza del particolare, a condizione che il particolare – l’individuo nella sua concretezza – non si disciolga come una notte nera nel sapere che lo conosce, ma che da esso venga (ri)prodotto, e perciò salvato nella sua inafferrabilità: questa la forza del metodo trasduttivo simondoniano, tale per cui, scrive Tenti:
«l’unico modo per comprendere l’essenza singolare di quel cristallo è conoscerne l’ordine formativo, ovvero (ri)costruirlo; la singolarità, d’altra parte, è salva nella misura in cui non si può mai costruire in oggetto, interamente, ma soltanto suscitare le forze che portano una genesi in un certo ordine di relazioni» (p. 19).
In questo senso, la filosofia simondoniana «aspira ad una poietica» (p. 19), il cui modello è rappresentato dall’Enciclopedia illuminista, quale dimensione attuatasi di una relazionalità costruttiva, aperta, tra i saperi, capace – specularmente al movimento morfogenetico – di en-cyclo-péder, come scriveva Edgar Morin nel 1977 nel primo dei suoi volumi su La méthode.
Il problema della tecnica
Anche il problema della tecnica, letto da Tenti come una naturale prosecuzione della riflessione simondoniana sull’individuazione, se inquadrato da questa prospettiva assume nuova luce. Lungi dall’essere un destino, un rovesciamento e compimento della filosofia occidentale, Tenti mostra in Estetica e morfologia in Gilbert Simondon come la tecnica sia pensata da Simondon come «un regime del germogliare del senso» (p. 51), l’oggetto tecnico come una «forma capace di relazione e di sviluppo» (p. 55). Il piano ontologico nel quale è presa la tecnica è lo stesso sia del conoscere sia del movimento auto-sfasantesi dell’essere; la tecnica è, scrive Tenti, un «costume produttivo», che risolve un’incompatibilità (come l’essere nel suo sfasarsi), una disparazione, innalzando ad un livello più alto (transindividuale, direbbe Simondon) le forme dell’agire e comunicare umani. La tecnica è poietica, creatrice di schemi, e perciò trova nella produttività naturale un suo analogo. È questo uno dei nodi dell’interpretazione di Tenti, giacché, egli scrive, «si tratta qui di comprendere una delle analogie più importanti, quella tra generatività naturale e formatività umana» (p. 64). Se l’essere è morfogenetico, e se tutto il fare, come dichiara Tenti, ha a sua volta le caratteristiche di un far nascere, allora la tecnica stessa non è alienazione, ma prolungamento della morfogenesi, la cui indagine rappresenta per Simondon il fulcro dell’analisi filosofica. In questo modo, s’intravede da un lato la possibilità di ricavare dai testi simondoniani un pensiero della tecnica “ecologico”, che cioè faccia dell’oggetto tecnico, come vale per l’individuo, un lato di una relazione indissolubile con il milieu al quale esso si trova associato, passo che Tenti non compie ma al quale accenna; dall’altro, più in conformità con le tesi del saggio, anche l’estetica, «il campo che più di ogni altro è in contatto con le facoltà creative dell’uomo«» (p. 65), dovrà essere ripensata seguendo questo paradigma.
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L’estetica, infatti, è lo «spazio fondativo dell’attività umana, che accomuna il fare al divenire morfogenetico dell’essere» (p. 13). Vi è qui, mostra Tenti, un ritorno dell’essere su se stesso, che l’estetica assume come proprio compito «rintracciando nell’oggetto la tendenza che precede la sua separazione dal soggetto» (p. 69). Bello, in questo senso, è ciò che, attraverso un atto d’inserzione, è restituito al suo milieu, e non mutilato da esso. Riecheggiano qui le meravigliose pagine sulla tecno-estetica presenti in Du mode d’existence des objets techniques: bello è, secondo Simondon, il treno che esce dalla galleria di montagna, il mulino costruito in prossimità del ruscello, poiché «quando la tecnica si integra così profondamente al contesto fisico, vitale e psichico-collettivo da mobilitare condotte, orientamenti e individuazioni mettendo in comunicazione molti ordini distinti, la sua potenza costruttiva incontra le forze vive del reale» (p. 70). È come se, scrive Tenti, solo nel fare estetico l’essere potesse fruire di sé, trovando la correlazione armonica articolata in punti-chiave, tale per cui l’insieme tecnico s’inserisce naturalmente nel milieu come al termine di un’evoluzione, che secondo Simondon rappresenta la peculiarità della prima fase culturale del rapporto tra uomo e mondo, la fase magica. Allora Tenti può scrivere che il valore dell’arte, da questa prospettiva, è proprio quello di ricostruire un universo, intessendo «una trama cosmica che restituisce il soggetto ad un ambiente» (p. 69).
Un’estetica dopo l’estetica
Si tratta a questo punto per Tenti di proseguire il pensiero simondoniano, abbozzando il progetto di «un’estetica dopo l’estetica» (p. 71), ovvero un’estetica svincolata dal paradigma della sensibilità, per approdare ad una considerazione dell’arte come «normatività costruttuiva» (p. 72) e catalizzatrice di senso. Come accadeva a livello dell’essere, anche all’estetica va riconosciuto il carattere poietico: «la nuova estetica auspicata da Simondon aspira ad essere un’estetica poietica, coltivazione di essenze genetiche[…] l’attività estetica, quando è feconda di forme, è una riflessività più-che-soggettiva e una costruttività più-che-oggettiva»(p. 74). Un’estetica morfologica, che possa fornire un modello concreto del divenire dell’essere, (ri)creando, come il processo d’individuazione, le forme di cui si compone il reale. Ecco allora che nel fare estetico è integrata anche la tecnica, collaborando esse «al gesto in cui consiste l’essere stesso: il gesto dell’”operazione riuscita”, della realizzazione continua che è l’affettività delle forme» (p. 78).
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Ecco dunque, in estrema sintesi, alcuni dei contenuti di questo saggio interessante, Estetica e morfologia in Gilbert Simondon, che, come si sarà visto, non costituisce tanto una vera e propria monografia dedicata al pensatore francese, quanto piuttosto un utilizzo critico e operativo della sua filosofia. Tenti non vuole ricostruire filologicamente i nodi dell’opera simondoniana, ma utilizzare, alla stregua di strumenti critici, alcuni concetti derivati da essa, adeguandosi alla tendenza speculativa che caratterizza il pensiero di Simondon. E questo è forse il metodo migliore per leggere Simondon, poiché risponde all’esigenza di apertura e trasversalità che egli riteneva il segno autentico del filosofare. Tenti riesce in quest’impresa, indicando tra le righe nuovi e fecondi percorsi di ricerca che si auspica trovino chi voglia batterli, e lo fa rispondendo all’esigenza fortemente filosofica di fare ancora una volta della creatività concettuale, dell’assalto alle nozioni sedimentate la cifra di questo incedere. Ecco cosa, ci sembra, renda attuale e fecondo ancora oggi un ritorno a Simondon come quello proposto da Tenti.
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