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Giappone e omosessualità: dall’antichità a oggi

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4 minuti di lettura

Non esistono statistiche accurate, ma pare che il 5% della popolazione giapponese faccia parte della cosiddetta comunità LGBTI. Nonostante un passato di grande tolleranza, il Giappone non è oggi uno dei paesi più all’avanguardia per quanto riguarda i diritti omosessuali. Negli ultimi anni le battaglie a favore delle minoranze sono diventate via via più importanti, ma sull’argomento regna ancora parecchia confusione, soprattutto per quanto riguarda l’importante differenza tra omosessualità (il proprio orientamento sessuale) e la disforia di genere (la propria identità sessuale).

Andando indietro nei secoli possiamo notare come il Giappone abbia spesso supportato l’omosessualità – soprattutto quella maschile – probabilmente influenzato dalla cultura cinese, dove già in tempi antichi è possibile trovare numerosi documenti che attestano una grande libertà sessuale, anche tra persone dello stesso sesso. Al contrario dell’Europa cristiana, i rapporti tra uomini non sono visti come un atto peccaminoso: si dice per esempio che nel Giappone Antico i dotti buddisti fossero soliti amarsi fra loro. Anzi, si pensa sia stato proprio KōbōDaishi (774 – 835), monaco buddista e grande figura intellettuale, a portare in Giappone l’omosessualità maschile, inaugurando la pratica chiamata nanshoku. Quando i missionari europei arrivarono in Oriente nel XIV secolo, la naturalezza dei rapporti tra monaci li sconvolse, tanto da far loro pensare di aver trovato una sorta di Sodoma orientale.

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Anche la cultura dei samurai approvava l’omosessualità. In particolare, un’usanza chiamata shudō, che ricorda molto le pratiche dell’antica Grecia, voleva che in campo militare – dove le donne erano ovviamente escluse – un uomo più anziano “crescesse” e istruisse un ragazzo più giovane anche attraverso rapporti sessuali dove la parte attiva (il più adulto) era ben distinta da quella passiva (il ragazzo). Il tutto nel rispetto di principi come l’onore, la fedeltà e la lealtà. Col tempo, complici i periodi di pace, l’omosessualità si distacca dal suo lato più “spirituale” per diventare un affare commerciale: la prostituzione maschile per una clientela di uomini era in gran voga e a praticarla erano spesso attori maschi chiamati kabuki. Se il teatro kabuki era inizialmente caratterizzato da danze femminili con prestazioni “extra” dopo lo spettacolo, divenne poi nel 1600 una forma d’arte in cui a danzare erano uomini vestiti da donna che, finita l’esibizione, si spostavano nelle sale da tè per incontrare i propri clienti.

Giappone omosessualità
Miyagawa Isshô, Spring Pastimes (1750).

Non mancano poi i riferimenti letterari. Già le Storie di Uji (1212 – 1221) raccontano incontri tra monaci che, non avendo il permesso di avere storie d’amore con delle donne, avevano rapporti coi novizi più giovani, non solo oggetti sessuali, ma di adorazione, devozione, ammirazione spirituale. Nel periodo Heian (XI secolo) il romanzo Genji monogatari ritrae uomini stregati dal fascino di ragazzi più giovani, mentre nel 1676 Kitamura Kigin scrive i Iwatsutsuji, una raccolta di poesie sull’omosessualità complete di illustrazioni (e pubblicate solo un secolo dopo). Nel 1687 abbiamo poi le quaranta novelle a tema di Ihara Saikaku, Nanshoku O kagami, dove l’omosessualità è affrontata con grande naturalezza. Il libro Vita Sexualis di Mori Ōgai, risalente all’epoca Meiji (1868-1912), racconta invece gli incontri amorosi rigorosamente al maschile tra studenti universitari. Nel 1949 esce poi Confessioni di una maschera di Yukio Mishima, dove il giovane protagonista è attratto da uomini molto virili, un desiderio che lo turba e lo porta alla repressione.

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Anche l’arte non si tira indietro quando si tratta di rappresentare l’amore tra uomini, come per esempio nei disegni erotici chiamati shunga. In questi dipinti gli uomini indossano spesso abiti femminili, così che non è sempre facile distinguere, a meno che non sia palesemente espresso nel disegno, quali rapporti siano omosessuali. Non mancano in questa sezione gli incontri amorosi tra donne, anche se meno frequenti.

Giappone omosessualità
Katsushika Hokusai, Gods of Myriad Conjugal Delights (1821)

Col tempo questa concezione così libera dell’amore tra persone dello stesso sesso è purtroppo cambiata. Complice l’influenza occidentale, l’omosessualità ha iniziato a essere erroneamente collegata a una malattia o più in generale a una pratica dalla dubbia moralità. Dopo un periodo di repressione negli anni Settanta dell’Ottocento, nel 1880 l’amore tra uomini (o donne) tornò a essere legale, anche se rimase un’attività clandestina. A differenza dell’Europa, la questione dell’orientamento sessuale è complessa non tanto per motivi religiosi, ma perché mina lo status sociale di una famiglia, rendendo la continuazione della discendenza impossibile.

Per quanto riguarda la contemporaneità, l’argomento ha suscitato scalpore dopo la “questione dell’ostello”. Nel 1990 a Tokyo il Gruppo di Lesbiche e Gay in movimento (OCCURS) alloggiava in un ostello della gioventù pubblico durante i propri incontri. Quando il gestore scoprì il tema dei loro dibattiti – ovvero riflessioni e discussioni sulle minoranze e sull’orientamento sessuale – decise di non concedere più l’ostello. LOCCURS portò quindi la questione in tribunale e, nel 1994, ottenne una sentenza a suo favore che accusava l’albergatore di discriminazione. Anche alla Corte d’appello la sentenza fu stata la stessa: il comportamento del gestore venne considerato un atto discriminatorio verso una minoranza, che andava quindi risarcita.

Già dagli anni ‘70 riviste a tema affrontano esplicitamente il tema dell’omosessualità. A questi si aggiungono manga ed anime (e di conseguenza il cinema che a queste opere d’arte si ispira) dove l’argomento viene spesso affrontato in libertà. Tuttavia, la questione del matrimonio rimane molto spinosa perché l’articolo 24 della Costituzione afferma che «il matrimonio si fonda unicamente sul consenso di entrambi i sessi», clausola a cui i giuristi stanno lavorando.

Il Giappone non ha quindi leggi anti-omosessuali, ma la tutela della comunità LGBTI non è ancora del tutto completa. Esiste per esempio la DP (Domestic Partnership), una sorta di unione civile in grado di garantire alle coppie dello stesso sesso diritti come l’eredità, la delega sanitaria in caso di impossibilità del compagno di prendere decisioni autonome, eccetera. Gli episodi di violenza omofobica sono fortunatamente rari, ma l’informazione è comunque molto scarsa: si fatica per esempio a distinguere i concetti di omosessualità e transessualità. La conseguenza è una chiusura riguardo all’argomento, la presenza di pregiudizi e, ovviamente, la paura di “uscire dall’armadio”. Il problema è ancora più critico quando si parla di omosessualità femminile, ancora più faticosa da accettare e di certo ancor più di nicchia per quanto riguarda l’informazione.

Come in molti paesi, la strada è ancora lunga, ma le voci degli interessati, per fortuna, si fanno sentire.

Robert Aldrich, 2006, Une Histoire de l’Homosexualité, Seuil.

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