In questo scritto vengono presi in esame gli studi di Georges Devereux sull’identità e i disturbi psichici, ponendo una particolare attenzione alla sua elaborazione del concetto di complementarità tra Psiche e Cultura. Le analisi sul processo di formazione dell’identità nell’essere umano portano l’autore ad affermare da subito che la cultura è il filtro del contenuto psichico. Nel testo La rinuncia all’identità, sostiene che esiste un conflitto interiore che appartiene a tutti gli esseri umani, una lotta tra il voler appartenere solo a sé stesso e la necessaria accettazione di una correlazione dell’Io con l’ambiente. Un’attrazione regressiva verso l’indistinto e contemporaneamente la consapevolezza dell’essere determinato da altro.
Il processo di identificazione secondo Georges Devereux
Nel conflitto interiore tra l’io e il mondo esterno è in gioco l’autoconservazione individuale che determina, in questo caso, il timore della perdita della propria presenza. È in questa paura che Georges Devereux individua una nuova chiave per leggere la malattia mentale. La rinuncia del paziente a una progressiva individualizzazione dal mondo esterno può essere interpretata come un meccanismo difensivo per mantenere salda la connessione con il proprio “io”. Se il paziente teme il possesso di un’identità, l’analista cerca invece di fissargliene una. In questo senso ogni interpretazione da parte dell’analista è in un modo o in un altro un’attribuzione d’identità e un processo di identificazione.
Nell’uomo il senso di un sé integrato è qualcosa di acquisito che si istituisce in modo graduale. Il neonato non ha percezione della propria individualità o del proprio corpo come un tutto, la formazione della sua identità viene determinata da un atto di emancipazione da ciò che lo circonda. L’identità del bambino non è un dato primario ma, con le parole di Lévi-Strauss, il prodotto di un bricolage. Sfortunatamente, gran parte dell’educazione infantile nega l’identità autonoma del bambino. Georges Devereux spiega infatti che, data l’inclinazione di tanti genitori a punire le manifestazioni di individualità dei figli, i pazienti spesso credono che il desiderio di possedere un’individualità sarà valutato come un atto di tracotanza punibile con la sua distruzione.
Il patologico
Comprendere come funziona la psiche di un paziente psichiatrico, ci dice Georges Devereux, diventa complesso proprio perché egli adopera gli strumenti culturali in modo arbitrariamente soggettivo, prescindendo dal loro significato socialmente condiviso. Il paziente crede che l’analista possa dargli una normalità di facciata che lo protegga dalla distruzione, ma teme anche che portando alla luce la sua identità possa essere rivelata la sua vulnerabilità. A questo punto, la rinuncia o il mascheramento dell’identità diventano uno strumento difensivo. Come Odisseo finge di chiamarsi Nessuno per fuggire da Polifemo, allo stesso modo il mascheramento dell’identità del paziente risponde alla paura di essere divorato.
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Devereux ritiene necessario sottolineare che il patologico non è solo rivelatore dei meccanismi universali dello psichismo, ma anche della funzione generale della cultura in sé. Definisce la cultura come un asse organizzatore del comportamento che permette all’uomo di vivere bene in una data società. È una modalità per conoscere il sé e il mondo. Una scatola di strumenti che offre agli individui la possibilità di attualizzare le proprie potenzialità, ma che allo stesso tempo gioca un ruolo fondamentale anche nella strutturazione del disagio psichico. Rispetto a ciò, è importante comprendere che il termine «cultura» in sé è usato da Georges Devereux per indicare un fenomeno universale, ciò che costituisce l’umanizzazione, da distinguere dall’acquisizione di una cultura specifica definita come etnizzazione.
Uniformare
Le società patologiche sono quelle che promuovono le pressioni e le rimozioni che rendono un individuo indifferenziato, impoverendo la sua identità. L’asserzione sull’esistenza di società malate è una grande intuizione di Devereux che permette di compiere una critica delle teorie per le quali l’adattamento è il criterio di salute mentale. Infatti, la sua idea è che ogni malato mentale è un disadattato nella sua cultura ma non ogni disadattato nella propria cultura è un malato mentale. Non essere conformi alla cultura prevalente non determina necessariamente la psicosi ma può voler dire che nel processo di costruzione della propria identità si è riusciti a fuggire alle pressioni sociali e alla legge di regolarità del comportamento da adottare. In questo senso, il nesso tra normalità psichica e adattamento perde di significato.
L’aspirazione della società moderna a creare un ambiente unificato e privo di differenze contrasta la possibilità di costruzione di uno spazio sociale sicuro in cui sorgerebbero identità integre. Secondo Georges Devereux, le società attuali promuovono la suddivisione e la frammentazione dell’uomo e della sua vita, producendo la depersonalizzazione dell’individuo e la sterilizzazione dei suoi affetti. Richiamando la seconda legge della termodinamica, l’autore evidenzia il fatto che un sistema chiuso e del tutto omogeneo cessa di produrre lavoro esternamente percepibile. Per questo motivo, le differenze culturali ed etniche sono indispensabili alla civilizzazione umana che altrimenti tende ad arenarsi.
Decadenza delle identità: la denuncia di Georges Devereux
Quella di Devereux è una denuncia della situazione di crisi presente nella società attuale. Uno stato di decadenza che non può essere risolto ricorrendo al sostegno delle identità collettive costruite artificialmente, che siano esse etniche, di classe o altre identità di sostegno. L’assunzione di una sola identità dominante condurrebbe alla rinuncia di un’identità reale, producendo l’esclusione di tutti quegli individui che non si riconoscono in essa. Scrive Georges Devereux che «non essere niente altro che uno Spartiate, un capitalista, un proletario, un buddista, si è molto vicini a essere niente, e quindi ad essere completamente niente»[1]. L’identità collettiva può essere funzionale solo se viene concretamente estesa nella sua portata e significativamente disinvestita. Non deve inglobare o annientare le altre identità perché è proprio la loro accumulazione irriproducibile che sta alla base di un’identità autentica.
In conclusione, Georges Devereux sostiene che sia necessario trasformare la concezione che abbiamo di noi stessi e riformulare la nostra idea d’identità. Bisogna tornare umani, riappropriarci della nostra affettività, del senso della realtà, solo così potremo sopravvivere in questa società patologica. Le identità devono tornare ad esprimere «l’alienazione da quello che gli altri pretendono che tu sia e da ciò che essi collocano nel nome che ti danno»[2]. Questo è ciò che serve all’umanità contemporanea.
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[1] Georges Devereux, Identità etnica: le sue basi logiche e le sue disfunzioni, in Saggi di etnopsichiatria generale, a cura di Salvatore Inglese, Roma: Armando Editori, 2007, p.164.
[2] Citato da Zygmunt Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Cambridge, 1992, traduzione di Giovanni Arganese, Bologna: il Mulino, 2012, p.162.