Cenni biografici
Camille Claudel nasce nel 1864 a Fère-en-Tardenois, piccola località a nord della Francia. Grazie alla famiglia benestante sia lei che il fratello minore, Paul, riescono a coltivare le loro passioni, rispettivamente la scultura e la poesia. Camille in particolare comincia a modellare l’argilla sin da bambina e, patrocinata dal padre nonostante le opposizioni della madre, studia all’Accademia Colarossi di Parigi grazie alla quale, tramite l’insegnante Alfred Boucher, conosce nel 1883 lo scultore Auguste Rodin e ne diventa subito l’amante.
«Mia sorella Camille aveva una bellezza straordinaria, ed inoltre un’energia, un’immaginazione, una volontà del tutto eccezionali. E tutti questi doni superbi non sono serviti a nulla; dopo una vita estremamente dolorosa, è pervenuta a un fallimento completo»
(Paul Claudel)
Dopo la separazione con l’artista si apre per la donna un grande – seppur breve – periodo artistico, coronato dal suo capolavoro, l’Age mûr, del 1907. Sei anni dopo viene fatta rinchiudere in un manicomio a seguito di un disordine mentale che la porta addirittura, nell’apice del delirio, a distruggere le sue opere. Continuamente accompagnata dalle manie di persecuzione, Camille muore nel 1943, dopo trent’anni di reclusione.
«Ti proteggerò ed eleverò le tue capacità artistiche»
Quando si incontrano per la prima volta, Camille Claudel ha 18 anni e Rodin 41. «Ha una natura profondamente personale, che attira per la grazia ma respinge per il temperamento selvaggio» scrive di lei l’artista che, subito, intravede nella giovane una genialità che influenzerà la sua stessa arte tanto quanto quella di lui farà con Camille.
Nel corso di tutti gli anni trascorsi insieme, però, incombono due ombre. La prima, come detto da Rodin stesso, è il carattere della donna che – già in gioventù – rivela i primi disordini psicologici; la seconda è la moglie di lui, Rose Beuret Mignon, dalla quale ha anche un figlio, di due anni più piccolo dell’amante. A dispetto di tutto, i due scultori portano avanti la relazione e vanno a vivere insieme nella villa che sarà sede delle loro migliori creazioni, nonché dei momenti migliori. «Tu che mi dai dei godimenti così elevati, così ardenti, vicino a te, mia anima, nel furore dell’amore mantengo sempre il rispetto per la tua persona e per il tuo carattere, mia Camille, non mi trattare senza pietà, io ti chiedo così poco…» si legge in una lettera. La fiducia che lui nutriva nelle capacità – e non solo – della donna erano tali da affidarle la realizzazione di mani e piedi dei suoi soggetti scultorei.
Nel 1891 termina La Valse, scultura in bronzo da vedersi come una sintesi della breve passione con il musicista Claude Debussy, dal quale la donna sperava ardentemente di ottenere il proprio riscatto, spingendo così Rodin a lasciare la moglie. Ma invano. Un anno dopo Camille resta incinta e mette fine alla relazione con lo scultore, conscia del fatto che avrebbe sempre ricoperto il ruolo dell’amante.
Un genio unico
Quel che caratterizza tutta la produzione di Camille Claudel è l’assoluta padronanza del movimento, della grazia. Soggetto prediletto della sua arte sono gli uomini – motivo da ricercare, nello stretto rapporto col padre e il fratello e, da contro, nei contrasti con la madre, evidente nella sensazione di abbandono che emerge in molte opere – e, in particolare, la virilità e la figura matura, a tratti paterna, che ne consegue, come il Buste de Rodin (1888-89) conservato oggi al Musée Rodin insieme a molte altre opere dei due.
A causa dell’internamento in manicomio voluto dalla madre e dal fratello Paul in seguito alla morte del padre tanto amato, Camille non scolpirà né disegnerà più. Sono numerose le lettere nelle quali la donna chiede di poter fare ritorno a casa. «Se tu mi concedessi soltanto la stanza della signora Régnier e la cucina, potresti chiudere il resto della casa. Non farei assolutamente nulla di riprovevole. Ho sofferto troppo…», scrive.
Infine, nel 1930, si rivolge ormai esasperata al fratello Paul: «(…) sono 17 anni che Rodin e i mercanti di oggetti d’arte mi hanno spedita a far penitenza nei manicomi. Dopo essersi impossessati dell’opera di tutta la mia vita… Il mio povero atelier, qualche povero mobile, qualche utensile che mi ero forgiata io stessa, la mia povera piccola casa eccitavano ancora la loro cupidigia! – L’immaginazione, il sentimento, il nuovo, l’imprevisto che nasce da uno spirito evoluto, tutto questo era loro precluso, a quelle teste murate, a quei cervelli ottusi, eternamente chiusi alla luce, per cui avevano bisogno che qualcuno gliela donasse. E lo ammettevano: “Ci serviamo di una pazza per trovare i nostri soggetti”. C’è forse qualcuno che nutre almeno un po’ di riconoscenza per chi lo ha nutrito, che sa dare qualche risarcimento a colei che hanno depredata del suo genio? No! Un manicomio! È lo sfruttamento della donna, l’annientamento dell’artista a cui si vuol fare sudare sangue».