André Breton la detestava. Paul Éluard, Max Ernst e Salvador Dalì ne rimasero estasiati. Elena Dmitrievna D’jakonova, meglio nota come Gala, «era una pura forza sessuale», bruciava d’amore tanto da lasciare scottato chiunque avesse condiviso con lei il letto, la passione e, ovviamente, ogni forma d’arte. Venuta dalla Russia a sconvolgere il mondo culturale francese, la sua mistica bellezza la trasformò in “musa inquietante” dei surrealisti, irretiti, manipolati, arsi vivi dalla di lei passione.
In sanatorio, rinchiusa per turbe psichiche, attirò a sé Éluard, ipnotizzato da quegli occhi duri e labbra sottili che sembravano celare un mondo, senza mai svelarlo davvero. Lo sposò nel 1917, in una unione in cui la totale sottomissione di lui si scontrava con lo spirito libero e dominatore di lei. Nel periodo surrealista, Éluard scrisse le sue prime poesie quando aveva Gala al suo fianco, le dedicò lettere intrise d’amore, continuò ad adorarla nonostante i tradimenti e gli inganni. Un giorno, nel 1928, le scrisse così:
«Ho sognato d’ essere disteso su un letto accanto a un uomo che non sono sicuro d’identificare. Gli giravo le spalle. E tu sei venuta ad allungarti accanto a me. Mi baciavi sulle labbra e io ti carezzavo quei tuoi seni fluidi e vivi sotto il vestito. A un tratto, dolcemente, la tua mano è passata sopra di me ed è andata a cercare il sesso dell’ altro personaggio».
Lui, l’amante, era Max Ernst. Entrato in scena nel 1922, aveva scatenato una tempesta emotiva sulla coppia, stabilendosi nella loro casa in una Parigi dominata dal surrealismo. Il loro era una sorta di ménage à trois perverso che univa, elevava e al contempo consumava arte, affetti ed esistenze instabili. C’era chi come Louis Aragon compiangeva Éluard, il povero Paul costretto a dividere Gala con il pittore tedesco, e chi vedeva in loro due – uomini – una pulsione sessuale incanalata e messa a punto attraverso la mediazione di una donna bellissima fattasi ponte tra marito e amante.
Eppure era Gala la vera regina. Un concentrato di magnetismo indomabile, capace di rendere gli uomini fragili, nevrotici, esposti a ogni escoriazione nonostante la grandezza del loro genio. Chi inciampava nel suo sguardo severo, a primo impatto, rischiava tutto. Così successe ancora, e per sempre, a Paul Éluard, quando Max Ernst uscì di scena e Gala tornò ad essere sua, ma solo per poco. Nel 1929 incontrò Salvador Dalì, arrivato a Parigi per presentare Un chien andalou dell’amico Luis Buñuel. La passione fu totale, disarmante. Gala lasciò Éluard, che continuò a supplicarla con lettere struggenti, poesie disperate.
Incontrando il pittore spagnolo di cui Federico García Lorca cantò la bellezza («Oh, Salvador, dalla voce olivastra…») Gala trovò la sua strada, dedicandosi interamente a lui e dimenticando persino la figlia Cécile, abbandonata come il padre a un destino nell’ombra. I due vissero tutta la vita tra New York, Parigi e la Spagna e nel 1958 si sposarono nella Cattedrale di Girona. Così Dalì descrisse il loro primo bacio: «Di un sol colpo tutti i miei Parsifal erotici si risvegliarono. I nostri denti si urtarono e le nostre lingue si allacciarono, non era che l’ inizio di una fame che ci spingeva a mordere e a divorarci fino in fondo».
Di lei diceva che lo aveva sottomesso, come ogni uomo che entrava nel suo raggio d’azione, o di passione. «Amo Gala più di mia madre, più di mio padre, più di Picasso e perfino più del denaro», ripeteva a chiunque gli chiedesse di lei, e iniziò a dipingerla con enfasi assoluta, ponendola al centro del suo universo sentimentale e creativo. Quando la conobbe Salvador era ancora vergine, amava la masturbazione per sua stessa ammissione e, molti anni dopo, confidò che Gala era stata per lui l’unica donna, la sola con cui avesse avuto un rapporto sessuale.
Lei fu per lui sposa, amante, madre, dominatrice e compagna. In un’equivalenza perfetta e a tratti persino blasfema, Dalì la paragonò a Dio, dicendo che «se Gala diventasse piccola come un’oliva, io vorrei mangiarla», perché «l’unica maniera di conoscere l’oggetto è quella di mangiarlo. È per questo che la religione cattolica è la più perfetta che sia mai esistita, poiché pratica la cerimonia liturgica del mangiare Dio, vivo».
Nonostante i ripetuti tradimenti di lei, ormai anziana attirata da giovani che pagava per fare l’amore, Salvador continuò ad amarla con slancio totale, anche quando Gala decise di affidarlo alle cure dell’allora emergente Amanda Lear.
Sottopostasi a lifting per fermare il tempo e avida di fama e denaro per godere ancora di quel poco che le era rimasto, Gala morì nel 1982 a ottantotto anni, con Salvador che la vegliava già prossimo alla depressione. Dopo l’ultimo sospiro, Dalì fece avvolgere il suo corpo nudo in un lenzuolo e ordinò al loro autista di raggiungere il castello di Pùbol che lui stesso aveva donato alla moglie. Da amante e artista volle che quel corpo di donna fosse imbalsamato e deposto nella cripta del castello, in un ultimo e triste atto di quella venerazione erotica che la vide protagonista per più di ottant’anni.
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[…] André Breton la detestava. Paul Éluard, Max Ernst e Salvador Dalì ne rimasero estasiati. Elena Dmitrievna D’jakonova, meglio nota come Gala, «era una pura forza sessuale», bruciava d’amore tanto da lasciare scottato chiunque avesse condiviso con lei il letto, la passione e, ovviamente, ogni forma d’arte. Venuta dalla Russia a sconvolgere il mondo culturale francese, la sua mistica bellezza la trasformò in “musa inquietante” dei surrealisti, irretiti, manipolati, arsi vivi dalla di lei passione. Continua a leggere… […]