Queste ore, questi giorni e questi mesi – per non dire, a buon diritto, l’intero ultimo anno – rappresentano una delle testimonianze più nitide dell’intricato rapporto che si viene delineando tra individuo e società. Mai come oggi, almeno in tempi recenti, il senso di disagio, frustrazione e sconforto aveva toccato simili picchi (testimoniati per altro dall’esponenziale aumento di richieste di soccorso psicologico, aspetto quasi sempre in sordina nel bilancio di un paese). La problematizzazione dell’inscindibile binomio singolo-comunità è cosa nota, s’intende. Ma quali tentativi di fornire un’interpretazione analitica di questo nesso sono stati fatti? Quando il disagio sociale è diventato oggetto specifico di studio?
L’uomo è anormale
Per rispondere, può esser utile fare un passo indietro fino al 1963. In una famosa intervista condotta in occasione della creazione di un reportage sull’evoluzione della sessualità nei costumi degli italiani, Pier Paolo Pasolini pose a Giuseppe Ungaretti una domanda sul significato e l’essenza della normalità e dell’anormalità sessuale:
Tutti gli uomini sono a loro modo, anormali, tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura. E questo sino dal primo momento. L’atto di civiltà che è un atto di prepotenza umana sulla natura, è un atto contro natura.
G. Ungaretti
Freud e «Il disagio nella civiltà»
Poco più di trent’anni prima, con esattezza tra il 1929 e il 1930, un ebreo austriaco medico di professione, al secolo Sigmund Freud, aveva carpito l’essenza e lo sviluppo di questa stessa posizione in un testo che diede alle stampe con il titolo Il disagio nella civiltà (acquista). Tra le parole scelte dal poeta di Alessandria in quel breve frammento riportato, se ne può individuare una capace di far dialogare in modo più proficuo i due autori, capace di fornire uno dei primi tentativi analitici di interpretazione del disagio sociale: la “prepotenza”. La domanda che Freud propone come filo rosso dell’analisi di questo insolito sentimento di insoddisfazione, di smarrimento, di angoscia che viene per lo più esperito nelle società umane occidentali, potrebbe suonare «siamo certi del fatto che questo gesto di prepotenza umana sulla natura resti del tutto impunito?» La formulazione, negativa, della risposta a questo interrogativo, appare inevitabile.
In origine, il dissidio. In modo del tutto analogo a Thomas Hobbes, Freud individua nel contrasto l’attributo cardine delle relazioni umane, nell’avversario il ruolo naturale dell’altro, nell’aggressività il principio primo del mio agire. L’interazione primitiva per eccellenza altro non è se non volontà di saziare la propria pulsione aggressiva esercitando violenza o potestas sull’altro.
Nell’Inghilterra della guerra civile come nell’Austria del primo dopoguerra (in cui i semi malati dell’Austrofascismo erano ormai pronti a germogliare), c’è una sostanziale continuità in quel bellum omnium contra omnes. Se dunque l’uomo è per natura aggressivo, prevaricatore, interamente imperniato sulla soddisfazione del proprio e non dell’altrui bisogno, ne segue, in modo del tutto evidente, che trasformare la figura dell’altro-nemico nella figura dell’altro-compagno, non sia una transizione priva di conseguenze.
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Quel torto commesso verso l’entità naturale che l’uomo è, in cambio di un primo passo verso l’edificazione della Kultur (civiltà), va letto secondo Freud come la prima vera rinuncia. Il contratto parla chiaro: tengo per me la sicurezza e la collaborazione che mi viene dal cooperare ma rinuncio a vedere nell’altro l’oggetto della soddisfazione della mia pulsione aggressiva.
Da quel primo atto di prepotenza, l’intera parabola dell’evoluzione dei costumi e delle forme nelle società occidentali, può esser letta come il tentativo di rimuovere il carattere non-naturale della civiltà, sopprimendo l’originaria rinuncia che ogni nuova conquista civile comporta. Nelle vesti di un’autorità esterna, che è possibile identificare ora con la famiglia, ora con la scuola, ora con le istituzioni, la civiltà stronca sul nascere il bisogno naturale di violenza. Come Freud ha però dimostrato con maggior rigore di chiunque altro, la rimozione è un fatto più estetico che funzionale, dato che nulla a livello inconscio può concretamente dirsi rimosso. In altre parole, il risultato di questo millenario progetto di emendamento dell’uomo dalla sua tensione aggressiva, non avrebbe tenuto conto, secondo l’intuizione del medico austriaco, di ciò che realmente accade all’Io al momento della imposta rinuncia.
Il Super-Io e il senso di colpa
Nei panni di censore morale, quanto mai severo per non dire a tratti sadico, una delle tre entità intrapsichiche individuate da Freud, il Super-Io, osserva e prende nota dell’impossibilità dettata dalla civiltà di trovare nell’oggetto esterno la valvola di sfogo della costitutiva vena aggressiva presente in ciascun essere umano. Tutt’altro che rimossa, quest’ultima viene dal Super-Io riflessa e rovesciata dall’esterno all’interno, comportando al tempo stesso l’interiorizzazione non solo dell’autorità esterna (che di fatto riproduce il conflitto individuo-civiltà all’insegna del nuovo conflitto Super-Io-Io) ma anche dell’oggetto su cui esercitare l’impulso aggressivo (l’Io).
La tensione generata dallo scontro tra il Super-Io e l’Io, che vede frustrata dal primo la pulsione del secondo, crea quello che è probabilmente per Freud il sinonimo più prossimo dell’intero processo di civilizzazione: senso di colpa. Senso di colpa come conseguenza dunque della propria stessa inappagata e inappagabile natura aggressiva. Ma sarebbe legittimo chiedersi: perché mai ci si dovrebbe sentire in colpa?
Nell’immaginario comune la colpa è la conseguenza di un atto commesso. Dunque quale colpevolezza se il Super-Io intercetta e stronca sul nascere l’impulso aggressivo che, evidentemente, non ha modo di trovare sazio nel mondo esterno? Secondo Freud ciò è riconducibile all’assenza, nell’uomo, di una facoltà discriminatoria di Bene e Male – presunta assenza che l’intera tradizione filosofica occidentale sarebbe ben felice di accordare a Freud, dati gli innumerevoli tentativi di fondare principi teorici e prassi virtuose per indirizzare la condotta umana che rispondono al nome di “etica”.
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Se però – sostiene Freud – l’uomo è incapace di distinguere internamente l’essenza del vero Bene da quella del vero Male, è altrettanto vero che possiamo costruire un concetto di Male derivandolo dal mondo esterno; allora questo altro non è, se non ciò che fa perdere l’amore (inteso in senso lato come protezione altrui), e a questo livello, nulla importa se si tratti di una colpa effettivamente commessa o meramente intenzionale. Colpevolezza allora altro non sarebbe che la paura che l’autorità (Super-Io) scopra l’intenzione dell’Io di fare il Male: indifferente dinnanzi ad un Io reo nel pensiero o nella sostanza, il Super-Io punisce con l’attivazione del senso di colpa.
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Freud e la fragile sublimazione
A livello sociale quest’ultimo risuona come un trasversale sentimento di insoddisfazione e disagio, passibile di rendere nevrotica quella stessa società che pone in essere la civiltà per trovare soluzione alle principali esigenze umane.
Com’è evidente dietro questa promessa, si cela la grande contraddizione posta alla base della civiltà, cioè l’atto primo di prepotenza sulla natura. È evidente poi che quel processo di sublimazione incoraggiato dalla civiltà – cioè il tentativo da parte della società di nobilitare gli impulsi aggressivi indirizzandoli verso mete più elevate – possa produrre un argine di breve durata e ad appannaggio di pochi.
Non a caso, fa notare Freud, il fermentare a livello psichico della pulsione violenta, finisce sistematicamente per riversarsi e produrre effetti nefandi sulle nostre società; in questo senso, la sua morte nel settembre del 1939, se da un lato gli risparmia le atrocità del secondo conflitto mondiale, dall’altro attribuisce un tono quasi profetico alle sue intuizioni, passibili di trovar forma in uno dei capitoli più oscuri dell’intera storia umana.
Naturalmente le parole di Freud oggi non possono essere prese alla lettera. Di fatto la seconda metà del Novecento ha conosciuto una fase di reale progresso – rappresentato in massimo luogo dalla nascita del Welfare State e dal conseguimento, sempre in determinate società e con gradi differenti, dei diritti civili – che in parte smorza la frattura individuo-civiltà sopra analizzata. Nonostante ciò, va comunque ascritta a Freud una delle prime e più brillanti interpretazioni di quel senso di disagio che accompagna inesorabilmente il mutare delle nostre società.
Lorenzo De Benedictis
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