Freud o l’interpretazione dei sogni, quasi tre ore di godimento estetico con interpreti d’eccezione, primo fra tutti l’instancabile e intenso Fabrizio Gifuni, che ci guida alla scoperta di un Freud più umano.
Luci e ombre dell’Austria felix
Uno spettacolo affascinante e avvolgente (fino all’11 marzo). Non una lezione di filosofia, come temeva qualche sprovveduto del pubblico, ma un monumentale omaggio al padre della psicanalisi, che ha rovistato nella nostra interiorità, rivelando i misteri dell’inconscio. Tutto comincia dal romanzo del talentuoso drammaturgo Stefano Massini, L’interpretatore dei sogni, in cui egli finge la ricostruzione del quaderno di appunti freudiano (mai trovato), mescolando biografia dell’autore e veri casi clinici. La riduzione a teatro (a firma di Federico Tiezzi e Fabrizio Sinisi) è naturalmente più asciutta e la regia visionaria di Tiezzi somiglia quasi a una sceneggiatura cinematografica (scene-setting tranciate dal buio e da uno stile ellittico, momenti corali/monologhi, azioni in primo piano, rilevate rispetto allo sfondo), anche grazie alle splendide scene di Marco Rossi e a un uso sapiente delle luci (Gianni Pollini).
Si procede per allusioni e improvvise illuminazioni. Sopra un sipario trasparente si disegnano geometrie danzanti sulle note dei valzer di Johann Strauss. È un velo di apparenza calato sulla raffinata società viennese della Belle Époque (in scena vedremo la sobria eleganza di trine, guanti, velluti, ma anche accostamenti più audaci che rinviano ai decori di Gustav Klimt, costumi di Luca Sbicca). Sulla destra vi è un’ombra, un uomo seduto e piegato su se stesso, che pensa, la testa fra le mani: simbolo delle profonde incrinature nella coscienza d’Europa, che fra pochi anni correrà incontro alla tragedia della Grande Guerra. Per cogliere queste inquietudini il saggio di Freud L’interpretazione dei sogni (1900) risulta un osservatorio privilegiato.
Sigmund Freud scende dal piedistallo
Fulcro dello spettacolo è la figura di Sigmund Freud, interpretato magistralmente da Gifuni: un uomo lacerato da dubbi e domande, che procede per tentativi e a volte fallisce. È un pioniere, un detective dell’inconscio che esplora la parte più arcana dell’io, percorre i labirinti della mente alla ricerca di indizi, ma il materiale è impalpabile e sempre sfuggente. Nello studio, qualche poltrona, statuette egizie e greche, numi tutelari e taciti testimoni, raggelati nella loro bellezza mutilata dal tempo.
Sul fondale si affacciano decine di porte: al di là si dispiega la realtà viennese, ma anche l’oscurità labirintica della psiche. Nella prima parte dello spettacolo, molto trascinante, una processione di pazienti entra nello studio del dottor Freud. Bravissimi tutti gli attori, fra cui spicca la Tessa W. di Elena Ghiaurov. È un campionario di individui fragili, che hanno smarrito la voglia di vivere o la chiave del proprio io, sono uomini e donne nevrotici, frustrati, terrorizzati e sofferenti, eppure sempre lucidi. Una «umanità sorpresa di se stessa», spesso recalcitrante all’idea di una terapia, che viene a svelare le proprie voci interiori e visioni notturne. Ogni nuovo arrivo è una sfida per dipanare immagini vivide: scatole di farfalle, casse di vetro, capistazione tirannici e ragazzi d’oro che partono, corse per sentieri a precipizio, petti che si incendiano, serre di rose, vasi di viole…
Il racconto del sogno
Come rappresentare a teatro il sogno? Fumi, nebbie, proiezioni virtuali? Strade prevedibili e scontate. Si è scelta qui una via di maggiore impatto, improntata alla varietà di approcci narrativi. Talvolta si sviluppa un’azione in scena, ma più spesso la ricostruzione del sogno è affidata alla parola. Superato il «momento di vetro» di iniziale vergogna, i pazienti si aprono alla confessione e cominciano a narrare, cercando la parola giusta («le parole tradiscono») a definire dettagli e lottando con la razionalità del dopo, che rifiuta le situazioni assurde e illogiche del sogno. C’è chi, come il ricco mercante Oskar K. (Umberto Ceriani), chiede a Freud di imbavagliare i “sogni guasti” della moglie, perché «è pazzo chi crea nel sonno tali idiozie». Ma il dottore resta fermamente convinto che non bisogna censurare, bensì decriptare il codice del sogno, deviando dalla via maestra della razionalità. Condensazione e travestimento sono le architravi del sogno, che procede per scarti, assemblando immagini e sensazioni, a coprire desideri reconditi e inconfessati. Ogni sogno reca con sé qualcosa di clandestino e di inquietante, eppure «in un modo misterioso cerca di salvarci».
Scontri drammatici e fantasmi onirici
E il dottore ascolta, parla, suggerisce, guida, cerca di costruire un patto di fiducia, sfodera le armi della dialettica e talvolta dell’adulazione, prende appunti, e poi scompone, sfronda, ricava i simboli (talvolta sintetizzati da scritte al neon), in un procedere a tentoni costellato anche di passi falsi. Le sedute sono veri scontri drammatici: spesso i pazienti sono gelosi delle proprie creazioni notturne e rifiutano le speculazioni del dottore, come la pianista Elfriede H. (Bruna Rossi) che, abituata allo schema rassicurante e sicuro di un pentagramma, dove il do è solo un do e nient’altro, non accetta la sregolatezza del sogno: «come può osare lei dirmi che questa mostruosità è una mia creazione?». C’è poi chi lo accusa, come il nevrotico Ludwig R. (Marco Foschi) e Helga K. (Sandra Toffolatti): il dottor Freud entra come un estraneo nei sogni altrui, spalanca le porte, pretende di interpretare, tocca gangli sensibili, riattiva traumi e poi pretende pure la stima: le sue sedute offrono un nutrimento pacificatore o invece instillano il veleno nell’anima?
In effetti non c’è nulla di consolatorio: ammiriamo l’acume interpretativo di Freud, ma non vediamo le “guarigioni”. I personaggi si accasciano irrigiditi, come ripiegati sul proprio io denudato e sezionato dall’interprete-chirurgo; spesso ritornano a vagare sulla scena, presenze silenti con sguardi di dolore. Insieme a loro, dalle porte arrivano anche strane creature, animali ibridi che attraversano lo spazio oppure si mettono a sedere sulle poltrone. E allora forse questo non è semplicemente lo studio di Freud, bensì il contenitore della sua mente, dove convivono realtà, allucinazione surreale, sogno. Infatti, mentre analizza gli altri, inevitabilmente Freud riflette anche su se stesso e sui propri snodi irrisolti, come il rapporto con il padre autoritario. Poetica e da brivido la solenne processione che chiude il primo atto: figure in nero con ombrello e teste da coccodrillo portano una bara (quella del padre?) e faticano a trovare la porta d’uscita, mentre Freud/Gifuni, zoppicante e nudo, è un novello Edipo che ha “ucciso” il padre. Il secondo atto enfatizza lo scandaglio interiore del dottore su se stesso.
Pertanto, se lo studio è anche la scatola-mente di Freud, la girandola dei personaggi incarna i suoi dubbi: con il volto coperto di biacca, complici le algide alchimie della luce, diventano figure stralunate, astratte, lo sguardo perso nel vuoto (dettagli che rinviano alla maestria luminotecnica di Robert Wilson). Quindi, figure fantasmatiche. Sono reali oppure proiezioni della mente di Freud? Forse nei sogni dei pazienti c’è anche traccia del suo vissuto onirico? Una duplicità ambigua si riverbera anche nella conclusione metateatrale, quando un enorme specchio, dove il pubblico si può vedere riflesso, suggerisce l’analogia fra la sostanza dei sogni, del teatro e della vita.
Freud, o l’interpretazione dei sogni
di Stefano Massini
riduzione e adattamento di Federico Tiezzi e Fabrizio Sinisi
regia di Federico Tiezzi
fino al 11 marzo 2018, Piccolo Teatro Strehler di Milano
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