Frankenstein, o il moderno Prometeo è un romanzo nato quasi per gioco. Pare che Mary Shelley, allora appena diciannovenne, avesse accettato la sfida lanciata da suo marito Percy e il loro comune amico Lord Byron: chi avesse ideato la storia horror più intrigante e l’avesse trasposta in romanzo, avrebbe vinto. A Mary l’ispirazione non giunse subito e, anche in seguito, non fu subito disposta a lavorare intorno all’idea di una creatura portata alla vita dal nulla. Fu soprattutto grazie alle insistenze di Percy che nel 1818 il romanzo, destinato a diventare una pietra miliare del genere horror, vide la luce.
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Il successo di Frankenstein fu e rimane tutt’ora sensazionale. La bravura di Mary Shelley che, pur così giovane, riuscì a creare un personaggio complesso e atmosfere che fanno accapponare la pelle è senz’altro un elemento fondamentale. Ma più di tutto Frankenstein è la trasposizione di una paura che l’uomo aveva e avrà probabilmente in ogni epoca storica: la paura del progresso, il timore che ciò che è stato da lui stesso creato per uno scopo positivo finisca per rivelarsi un pericolo mortale. Grazie a questo motivo di fondo, in cui nessuna generazione può pretendere di non riconoscersi, il dottor Frankenstein e il mostro da lui creato – spesso erroneamente chiamato anch’egli Frankenstein – sono divenuti soggetto privilegiato del cinema fin dalla sua nascita.
L’ultima trasposizione cinematografica di Frankestein è Victor – La storia segreta del dottor Frankenstein, firmata da Paul McGuigan e approdata nelle sale italiane lo scorso 7 aprile. Tra gli interpreti troviamo James McAvoy nei panni del dottor Victor Frankenstein, Daniel Radcliffe in quelli del suo assistente Igor e, tra gli altri, Andrew Scott, che interpreta un religiosissimo ma intelligente ispettore di polizia, e Jessica Brown Findlay.
Il film inizia decisamente bene, presentandoci fin da subito la storia da un punto di vista insolito: quello dell’assistente di Frankenstein. Igor – che ancora non si chiama Igor – è un gobbo che vive e lavora in un circo, dove quella che dovrebbe essere la sua famiglia lo tratta come un animale, chiamandolo “mostro”. Ma tra uno spettacolo e l’altro il clown preso a calci da tutti si trasforma in un brillante studioso di anatomia, intuitivo e dotato: è grazie a queste sue caratteristiche che il giovane Victor Frankenstein, studente di medicina, lo nota e decide di farlo evadere dal circo per farne il suo aiutante. Il gobbo, che prende il nome di Igor – il coinquilino di Victor misteriosamente scomparso – vede la propria vita trasformarsi sotto i suoi stessi occhi: abiti nuovi, niente più gobba, guarita grazie ad una semplice operazione, infiniti libri da cui imparare, un nuovo amore all’orizzonte.
Ben presto Igor viene a conoscenza del folle progetto di Victor: assemblare un corpo con pezzi di cadaveri e donargli la vita attraverso l’elettricità. Il giovane assistente è entusiasta del geniale compagno di studi, ma non può fare a meno di riflettere sulla legittimità di quello che stanno per compiere. Tra tentativi falliti e un ispettore di polizia che cerca di ostacolarli in ogni modo, i due riusciranno infine a progettare un corpo forte abbastanza da sopportare la grande quantità di energia elettrica necessaria a dargli la vita. Ma, mentre su Igor gli scrupoli hanno il sopravvento al punto da fargli abbandonare il progetto, Victor è ormai fuori controllo e porterà avanti il suo progetto fino all’epilogo che richiama, anche se in chiave meno tragica, quello del romanzo di Mary Shelley.
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Il cambiamento di punto di vista è una trovata decisamente originale. La figura dell’assistente non è presente nel romanzo, ma è un’invenzione di James Whale, che nel 1931 realizzò una delle più apprezzate trasposizioni della storia: qui il folle dottore era affiancato da un fedele servo gobbo, Fritz, incaricato di recuperare le parti dei cadaveri dai cimiteri. In seguito la figura di Igor è stata spesso inserita, interpretata per lo più in chiave comica, fino ad arrivare al geniale personaggio della parodia di Mel Brooks, Frankenstein Junior. L’idea di farne, invece, un personaggio non solo intelligente, ma anche di grande spessore psicologico e capace di riflettere sul valore della vita, è innovativa e poteva davvero essere la carta vincente di questo film.
Sfortunatamente nella seconda parte del film la trama si perde quasi completamente. Gli unici pilastri che lo sorreggono sono la recitazione decisamente coinvolgente di Radcliffe e McAvoy, bravissimo nel gestire i repentini cambi di umore del suo folle personaggio, e un impianto scenico che vuole essere ad ogni costo spettacolare e che però tiene incollati allo schermo (sullo stile del Sherlock Holmes di Guy Ritchie). Per il resto, lo spunto di riflessione introdotto dai dubbi di Igor si risolve in un nulla di fatto, Victor si rivela un uomo tormentato dai sensi di colpa più che dalla spasmodica ricerca dell’immortalità e c’è perfino posto per una storia d’amore abbastanza insipida. Pure la creatura, attesa per una buona ora e mezza, si mostra soltanto negli ultimi venti minuti e manca di un ruolo vero e proprio.
Il problema di Victor, probabilmente, è il peso dell’eredità cinematografica che porta sulle spalle e di cui il regista è fortunatamente consapevole. Innumerevoli sono i richiami alle pellicole sul mostro di Mary Shelley, in particolare a quelle già menzionate di Whale e di Brooks e a quella di Kenneth Branagh, la cui scena della creazione, ricca di catene e ruote mastodontiche, è ripresa molto da vicino. Da un lato, quindi, il film di McGuigan non ha la pretesa di creare qualcosa di nuovo, ma anzi attraverso le molte citazioni denuncia il suo intento a prendersi poco sul serio; dall’altro forse è stato dato davvero troppo risalto agli effetti speciali, che finiscono per annullare una trama che già di per sé non poteva essere originale. Per fortuna Frankenstein è un soggetto così frequente nella cinematografia che sicuramente non mancheranno altre occasioni per poterne apprezzare rielaborazioni, speriamo di livello un po’ più alto.
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