Da quando Woody Allen ha girato Midnight in Paris tutti sembrano conoscere alla perfezione Francis Scott Fitzgerald. Conoscono gli anni ’20 come fosse la propria epoca, indossano cloche e frontini di piume, fumano sigarette col bocchino, bevono whisky con altri uomini ingessati in tuba e ghette. Poi è arrivato Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, con un Leonardo Di Caprio dal carisma indiscusso capace di far innamorare anche la più convinta nostalgica del Robert Redford 1974. Peccato che ci fosse la musica di Jay-Z a cozzare con l’età del jazz, che Carey Mulligan fosse piuttosto inadeguata a interpretare la vanesia Daisy e che tutta l’atmosfera del romanzo risultasse falsata dal luccichio sfrenato di lustrini e paillettes anni ’90 più che ’20.
Scott Fitzgerald si presta in effetti – e suo malgrado – all’appropriazione gratuita e scellerata di un vasto pubblico che non ha mai letto i suoi libri ma ha visto, anche solo per caso, in un trailer, in qualche foto, un omaggio sottile all’universo di quegli anni e ai capolavori che ha creato. Impossibile dimenticare il giubilo degli adolescenti che dopo il party in stile Gatsby organizzato dalla confraternita del telefilm Greek correva a condividere sui social – appena nati, nel periodo delle repliche – frasi del romanzo estrapolate senza criterio. Non era certo questo quello che avrebbe voluto, né durante la sua vita, né quando, mangiando cioccolato, si accasciava sulle pagine incompiute di The last tycoon, epilogo disincanto di una generazione ancor più disincantata che le sue opere avevano sviscerato nel profondo e senza ipocrisia.
Né avrebbe di certo voluto essere ricordato dai più unicamente per quell’amore che lo aveva riempito e svuotato per tutta l’esistenza, quell’amore che lasciò alla vita terrena per soli otto anni prima che anche Zelda, ormai sola, prendesse il volo senza ritorno. Zelda che per Ernest Hemingway era la «tremenda palla al piede» di Scott, Zelda che per anni la critica ha indicato come colei che rovinò il genio del grande scrittore.
Non avrebbe voluto non perché la stessa moglie aveva deciso di denunciarlo per plagio a causa di tutti gli episodi di vita coniugale e i frammenti di diario trasposti nei suoi romanzi. Né perché la gente, abbagliata dal lusso e dalla dissolutezza dipinte nei suoi libri, aveva frainteso la sua sensibilità descrittiva come indice di superficialità. Francis Scott Fitzgerald era abituato alle critiche, piovutegli addosso da sempre solo per essersi macchiato – a detta degli esterni, che poi sono estranei – di mancato impegno sociale.
Era abituato ma continuava a farsi spazio nel mondo a suon di generazioni perdute e annaspanti, di individui fisicamente e moralmente deteriorati nel tentativo (vano) di consolidare una qualche forma di successo economico e sociale. Sgomitava nel mondo letterario tratteggiando personaggi incapaci di conciliarsi con il presente, vacuamente votati al dio denaro per colmare il vuoto lasciato dalla fine dei sogni e delle illusioni.
In un’epoca in cui «non esistono che diamanti, diamanti e forse lo squallido dono del disincanto» [1] Fitzgerald ricercava un riscatto nella scrittura che non trattava temi sociali ma rappresentava meglio di qualunque altra lo squallido piattume dell’esistenza. L’avere piuttosto che l’essere, l’apparire invece del mostrarsi, il sopravvivere di contro al vivere.
E lo faceva con uno stile esemplare, da inserire in una versione americana delle Prose della volgar lingua redatte da un moderno e anglicizzato Pietro Bembo. «Se era riuscito a scrivere un libro bello come Il grande Gatsby avrebbe certo potuto scriverne uno anche migliore» [2], se non fosse che le farfalle sono fragili, e a volte le loro ali si spezzano per schiantarsi al suolo.
«I malati di mente sono sempre semplici ospiti sulla terra: eterni stranieri, che portano con sé decaloghi spezzati che non sanno leggere»: scriveva così Fitzgerald in una lettera alla figlia Scottie, lui che sperimentava l’instabilità della mente prima sulla pelle della persona che più amava al mondo (Zelda) e poi, di riflesso, sulla propria. Ormai l’alcol aveva divorato viva la sua salute, e ciò che restava della sua grande ispirazione. Come una piuma oscillante se ne andava in rovina a settantatré anni, senza sapere che le sue opere – a discapito delle voci, del fato e della foll(i)a – sarebbero rimaste straordinariamente attuali. E ancora oggi, ad anni e anni di distanza, le parole più valide per ricordarlo sono quelle dell’amico Ernest Hemingway:
«Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto non lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato o cancellato. Più tardi si rese conto delle sue ali danneggiate e comprese com’erano fatte e imparò a riflettere e non riuscì più a volare perché era scomparso l’amore per il volo e poté solo ricordarsi di quando volare non gli era costato il minimo sforzo» [3].
[1] Fitzgerald F. S., Il diamante grosso come l’Hotel Ritz, trad. di Oddera B., Milano, Emme, 1974
[2] Hemingway E., Festa Mobile, trad. di Mantovani V., Milano, Edizioni CDE spa, 1964
[3] Ivi, p. 145