Il nesso tra ascesi e filosofia
Come aveva già fatto Pierre Hadot parlando degli esercizi spirituali e Michel Foucault trattando della pratica ascetica della filosofia, anche Elettra Stimilli, nella sua “genealogia” dell’ideale ascetico, individua un nesso profondo tra ascetismo e filosofia.
L’idea di fondo è che la filosofia può essere intesa al contempo come discorso e come forma di vita. Nel primo caso essa è la ricerca di modalità di accesso alla verità, nel secondo caso, invece, la filosofia è una pratica teorica di vita in cui, attraverso l’esercizio della conoscenza, il soggetto umano è coinvolto in una trasformazione di sè stesso nella quale si forma la verità stessa ricercata dal discorso filosofico. Per questo motivo Platone parla nei suoi dialoghi di una “conversione” alla filosofia.
Nella pratica filosofica, come in quella ascetica, ne va dell’essere del soggetto che la mette, appunto, in pratica. Non esiste allora un soggetto già formato che si mette a fare teoria su una verità universale e necessaria, eterna e immutabile, separata da lui; piuttosto invece esiste la verità pratica e contingente di un individuo che inizia una pratica della conoscenza, un esercizio, e in questo esercitarsi nell’atto del conoscere, egli forma sè stesso nella possibilità di dire il vero.
In questo senso risulta chiaro anche l’ammonimento sul fatto che non bisogna chiedersi cosa se ne fa l’uomo della filosofia, bensì occorre capire il contrario, cioè cosa fa la filosofia all’uomo, come la filosofia in quanto pratica e forma di vita peculiare opera una trasformazione negli uomini e nelle donne.
La pratica ascetica
La pratica ascetica può essere ricostruita in modo storico-teoretico in quanto pratica umana. Il tentativo della ricostruzione di questa pratica è stato portato a compimento da Elettra Stimilli, filosofa italiana e docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, attraverso l’interpretazione di autori cristiani come Paolo di Tarso e Clemente Alessandrino, di sociologi come Èmile Durkheim, di filosofi come Max Weber e Friedrich Nietzsche e di teologi come Erik Peterson e Franz Overbeck. Questi studi, contenuti nel libro Il debito del vivente. Ascesi e Capitalismo (2011) hanno condotto Stimilli a formulare una teoria secondo cui la pratica ascetica è una pratica trasformativa in cui il soggetto stesso che la esercita forma sè stesso a un tempo come soggetto desiderante e astinente, perchè nell’ascesi il soggetto forma sè stesso come oggetto della sua stessa pratica.
Nella sua essenza questa pratica, però, si configura come una pratica di autocontrollo fondato sulla rinuncia e sull’autodominio delle proprie pulsioni, il cui fine è quello di vedere il chiaro dei proprio desideri e delle modalità del godimento. In questo senso la pratica ascetica attiva una decodifica della corporeità e una analisi delle pulsioni che rendono il soggetto umano cosciente delle modalità del proprio desiderare e degli istinti vitali che attengono alla sua natura biologica.
Ascesi e capitalismo
Secondo Elettra Stimilli, la pratica ascetica ha contribuito in modo essenziale alla formulazione del vocabolario economico occidentale. Come scrive nel suo libro , l’economia contemporanea governata dall’impresa capitalistica di generare accumulazione fine a se stessa, da un lato, e consumo improduttivo, dall’altro, non si fonderebbe sulla pratica del soddisfacimento sfrenato di ogni desiderio, bensì su un modo particolare di intendere il soddisfacimento, che, come tale, è divenuto a sua volta una pratica senza scopo e senza fine.
Questa tesi che Stimilli elabora nel suo discorso nasce da una interpretazione della tesi weberiana sullo spirito del capitalismo diversa da quella sviluppata dal movimento anti-utilitarista. Secondo Stimilli, la tesi di Weber sostiene che le forme di produzione del capitalismo moderno non si fondano sulla brama di ricchezza della logica utilitaristica, né sulla ricerca di mezzi per soddisfare fini determinati secondo la logica del soddisfacimento dell’interesse personale, bensì su un’etica professionale ascetica, che forma un’ethos lavorativo per il quale la produzione di profitto diventa un fine in sè della professione. Cioè nel capitalismo moderno il profitto viene perseguito indipendentemente dalla soddisfazione e dal benessere che può procurare, e in vista di questa razionalità a-razionale, che guida la prassi umana, il profitto diviene una potenza separata dall’agire umano fine a se stesso, che, però, essendo reso possibile dalla stessa razionalizzazione dell’agire professionale dell’uomo, riesce a vincolare a se stesso la prassi umana come tale, dandogli un fine.
Questo meccanismo è ciò che Weber chiama la gabbia d’acciaio del capitalismo, in cui ogni nuovo nato si trova a vivere senza possibilità di uscirne. È in virtù di questo meccanismo appena descritto che lo scopo della vita umana diventa esclusivamente quello di lavorare per produrre profitto fine a sè stesso e ciò si sposa perfettamente con la concezione etica protestante del lavoro come vocazione e non come fonte di guadagno.
In questo scenario, semplificando molto, i modi capitalistici di produzione riducono la vita umana a un nulla, senza neppure negarla o opprimerla, perché, anzi, la liberano dall’ossessione del lavoro come mezzo per il soddisfacimento dei bisogni,
Come ribadisce Stimilli citando Weber:
l’impulso acquisitivo, la stima esclusiva della ricchezza e il razionalismo utilitaristico non hanno di per sè ancora nulla a che fare con il capitalismo moderno (p.263)
Ma riuscendo ad occultare il fine ultimo della vita, proprio servendosi della natura anti-teleologica della prassi umana così come la si trova già descritta nell’etica aristotelica nella distinzione tra agire e produrre, questi modi di produzione capitalistici svuotano di senso l’esistenza proprio mentre instaurano un dominio su di essa senza precedenti.
Allora, la pratica ascetica razionalizzante dell’autodominio di sè, se intersecata con l’azione che non ha fini nè scopi fuori di sè, produce l’autocontrollo irrazionale di una produzione incessante per un consumo improduttivo che è la natura del capitalismo attuale, per il quale lo scopo della vita umana, e della prassi che la concerne, diventa solo quello di generare una accumulazione insensata del profitto inteso come un fine in sè.
Finalità senza scopo
Stimilli inizia il suo libro citando una formula kantiana che informa sulla paradossalità del sistema capitalistico contemporaneo e lo intende come costituito a partire dall’agire umano come tale.
La formula è finalità senza scopo. Il capitalismo, come l’agire umano vero e proprio come viene descritto da Aristotele nell’Etica Nicomachea, persegue una finalità caratterizzata dal non avere scopi estrinseci ad esso.
In poche parole, mentre si tende a pensare che il capitalismo produca qualcosa, in verità esso non fa che autoriprodursi attraverso diverse strategie, come quella della produzione eccessiva di profitto per un insoddisfacente quanto sfrenato consumo improduttivo.
Tuttavia, continua Stimilli, il capitalismo produrrebbe qualcosa e cioè la formazione della vita umana nella forma del suo sviluppo attuale. In questo senso è dunque da pensare il rapporto tra ascesi e capitalismo, tenendo cioè presente che l’impresa capitalistica è quella di formare il vivere socio-economico e politico contemporaneo e ultracontemporaneo (del futuro), e allo stesso modo, la pratica ascetica forma la vita del soggetto che la sperimenta, costituendo la base per un’etica socio-economica e politica.
Questa è anche la prospettiva adottata da Weber e che Stimilli mette in luce quando afferma :
Weber individua nella pratica ascetica una ‘condotta di vita’. Va compreso in che modo, nel suo discorso, l’ascesi, proprio in quanto ‘condotta di vita’, metta in moto un meccanismo che risulta determinante per la genesi del potere che fa dell’accumulazione del capitale un fine in sè da perseguire (p.258)
Il nesso tra ascesi e capitalismo diviene allora comprensibile ponendo in luce la similarità con cui, sia la prassi ascetica, che la ratio capitalistica trattano l’autofinalità della prassi umana, andando così a costituire la vita umana come finalità senza scopo, in cui il fine è mantenersi in vita senza soccombere né alla schiavitù del desiderare (ascesi) né alla schiavitù del soddisfacimento del bisogno (mentalità precapitalistica).
Nel momento in cui il desiderio perde il sostegno della finalità del bisogno che vuole soddisfare, resta solo il vivere quieto che accumula in modo fine a sè stesso, servendosi dei prodotti del capitalismo non più come oggetti del desiderio o come mezzi per il soddisfacimento di un fine, che è il bisogno.
Povertà e volontà di potenza
Allora in questo scenario va riscoperta la pratica ascetica del monachesimo francescano, così come viene riportata da Stimilli da gli studi di Todeschini, per cui la rinuncia e le logiche di vita pauperistiche vengono intese non come privazioni dei beni mondani, ma come «altro modo di possedere» che si fonda sul «buon uso dei beni mondani».
Scrive Stimilli:
in questo orizzonte, anche la perfezione evangelica a cui si ispira Francesco d’Assisi, come modalità di possesso socialmente fondante, viene interpretata nei termini di un discorso economico. […] coi francescani la rinuncia diviene una concreta realtà attraverso una serrata decodifica della condizione stessa della ‘povertà’.
La povertà, come strategia d’uso e di consumo delle cose e del denaro senza appropriazione, non significa rinuncia alla vita; ma vuol dire capacità di investigare i bisogni e i desideri, la possibilità di godere del mondo.
Poi Stimilli aggiunge che la povertà è in grado di formare criteri economici per il bene comune. Questo significa che l’eccesso di possesso in cui si esprime l’accumulazione fine a sè stessa, oltre il soddisfacimento dei singoli bisogni, messa in atto dalla macchina capitalistica, può essere sostituita da una logica economica fondata sull’uso e sul consumo che adotta come fine il mantenersi in vita per la vita stessa, per vivere.
In questo modo verrebbe rispettata l’autofinalità della prassi umana, che in quanto modo di vivere biologico dell’uomo, intende preservare l’attuazione di sè stessa nelle sue molteplici possibilità. Qui è anche rintracciabile la volontà di potenza nietzscheana, la quale, se da un lato, investendo sulla volontà di nulla, getta le basi per una nuova forma di dominio, dall’altro riscopre una condizione originaria della vita umana che è quella di tenersi-in-piedi per le proteiformi possibilità di agire per agire.