Fiore del deserto è un film del 2009 diretto da Sherry Horman. Dal 14 aprile nelle sale italiane, la pellicola narra la vera storia di Waris Dirie (Liya Kebede), modella etiope affermatasi nel Regno Unito. L’opera si basa sull’omonimo romanzo, scritto proprio dalla donna, per raccontare le sue vicende personali: Waris è infatti ambasciatrice delle Nazioni Unite e sta lottando contro le mutilazioni genitali femminili.
La protagonista di Fiore del deserto nasce nel 1965 in Somalia e cresce con la sua famiglia nomade. A soli 13 anni scappa di casa per evitare un matrimonio indesiderato. Il futuro sposo infatti è un sessantenne con tre mogli che ha pagato molto bene la famiglia di Waris per averla. Dopo una breve tappa a Mogadiscio, dove vive con alcuni parenti, la ragazzina si trasferisce a Londra, lavora per l’Ambasciata Somala e, scaduto il contratto, decide di rimanere in Inghilterra a causa dei conflitti nel suo paese natale. La ragazza conosce a malapena l’inglese e cerca di sopravvivere con lavoretti molto umili, facendo per esempio le pulizie in un fast food. Di grande aiuto è Marilyn, una ragazza apparentemente molto superficiale e di larghe vedute che ospita Waris nella sua stanza e le fa conoscere lo stile di vita occidentale.
La realtà dinamica e multiculturale della capitale inglese spaventa la protagonista, costretta a mettere in discussione abitudini e valori. La intimorisce per esempio l’idea della nudità, anche solo parziale, ma – influenzata da Marilyn – le sue lunghe gonne e i suoi veli rosa vengono pian piano sostituiti da jeans o vestiti più corti. Waris, pur terrorizzata, sembra infatti voler dimenticare il passato e distaccarsi dalle proprie origini per iniziare una nuova vita.
Ben presto lo spettatore scopre cosa turba la ragazza più di ogni altra cosa: è stata infibulata all’età di tre anni, un episodio indelebile nella sua memoria. Se la circoncisione femminile è per Waris la dolorosa normalità, confrontandosi con la propria compagna di stanza scopre che le donne europee non sono sottoposte a questa pratica. Il fatto che la sessualità possa essere libera, che una donna possa provare piacere e decidere del proprio corpo sconvolge la protagonista.
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La vita di Waris cambia radicalmente quando viene notata da Terry Donaldson (Timothy Spall), fotografo di moda di grande fama. Notando in lei una bellezza adatta alla passerella e alle copertine dei giornali, l’uomo la porta al successo, accompagnandola in un lungo viaggio alla scoperta, non solo di un nuovo stile di vita, ma anche di se stessa. Fare la modella per la protagonista non è un sogno nel cassetto: è semplicemente un modo per avere una vita migliore, per potersi permettere una casa, un po’ di serenità, forse, più di tutto, la libertà. «Cercheranno di cambiarti, ma non dimenticare mai da dove vieni», le dicono prima di partire, ma Waris va incontro a una lenta metamorfosi che la trasformerà dall’impacciata ragazza scalza e impaurita a una top model dai tacchi sempre più alti. Nel finale, i due spiriti della donna, quello africano e quello europeo, troveranno una sorta di equilibrio.
Il film ci racconta questa incredibile storia contrapponendo il presente al passato: da un lato abbiamo una Waris pian piano più sicura di sé in un mondo nuovo, dall’altro percorriamo invece l’infanzia della ragazza, scoprendo tutti i fantasmi passati, tutte le crudeltà subite. Fiore del deserto si presenta come una pellicola forte ma mai eccessiva. Spesso il pudore fa in modo che lo spettatore possa solo immaginare cosa sia accaduto alla protagonista, senza mostrarlo direttamente, ma soltanto accennandolo nel modo più chiaro e delicato possibile. È quindi un film che suggerisce senza sconvolgere, che indigna e porta alla riflessione senza puntare su una durezza troppo esplicita. Tra le scene più d’impatto abbiamo l’infibulazione della piccola Waris, sotto il sole, sulle rocce, con solo due donne – tra cui la madre – ad assisterla. Un’amputazione della femminilità i cui resti vengono abbandonati al suolo, divorati poi dagli uccelli, come ad eliminare totalmente il suo essere donna, il suo io.
Lo scopo dell’infibulazione è quello di evitare rapporti sessuali prima del matrimonio. Alle bambine in tenera età vengono quindi esportati totalmente o parzialmente i genitali esterni e vengono cuciti i due lati della vulva con punti di sutura o, in alcuni casi, con delle spine, lasciando solo un piccolo foro per l’urina e le mestruazioni. La prima notte di nozze, il marito ha il diritto di scucire la donna. Si tratta di una pratica tipica di alcuni stati africani che ha percentuali altissime in paesi come la Somalia (circa il 98% delle ragazze sono mutilate) e l’Egitto (85% circa). Questa tradizione non si basa esclusivamente sulla religione – il Corano infatti non la nomina mai – ma è necessaria per sposarsi e per continuare a fare parte della società. L’infibulazione è quindi vista come un segno di purezza, di virtù, è un nobilitare la donna oltre il mero piacere sessuale.
Al di là delle convinzioni religiose e personali, di fatto la circoncisione femminile è particolarmente pericolosa: molte bambine muoiono dissanguate durante l’operazione, oltre all’alto rischio di infezioni, malattie e problematiche varie durante il parto. Inoltre, i rapporti sessuali diventano dolorosi e il piacere della donna cala nettamente. Una tradizione quindi che mostra come la sessualità maschile e quella femminile siano percepite in modo molto diverso – e noi occidentali, pur distanti dalle mutilazioni, non possiamo vantare una grande apertura sul tema – e come il piacere possa essere naturale o innaturale a seconda del sesso della persona in questione.
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Negli ultimi anni molti paesi hanno dichiarato reato l’infibulazione, come l’Eritrea, l’Egitto, il Burkina Faso e, da poco, la Somalia, ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ancora 3 milioni di bambine siano a rischio ogni anno. Fiore del deserto lancia quindi un messaggio importante e cerca di far conoscere al pubblico una pratica ancora troppo comune. Waris dà così l’esempio di una ribellione che deve partire da dentro, dalle dirette interessate, da chi quella pratica l’ha vissuta sul proprio corpo. Solo quelle donne possono davvero comprendere, solo loro possono davvero fare qualcosa.
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