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Il Giudice e l’ergastolano

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2 minuti di lettura

Al Piccolo Teatro di Milano è in scena, fino al 22 dicembre, Fine pena: ora, riduzione teatrale a cura di Paolo Giordano, dal fortunato libro del magistrato Elvio Fassone. La regia di Mauro Avogadro guida a riflettere sui temi di ergastolo, colpa e pena, in una prospettiva anche esistenziale.

La scatola grigia della vita

La scena (di Marco Rossi) si presenta come un’enorme scatola grigia, divisa in due parti, contigue ma separate. Una poltrona e una scrivania segnano lo spazio della quotidianità; dall’altro lato, una grata-gabbia: sono le coordinate di due mondi opposti, la vita del Giudice e del giudicato. Il profumo della libertà è assai lontano per entrambi, in quanto anche il Giudice vive «costretto in un proprio carcere, un penitenziario esistenziale, perché la condizione umana è di per sé concentrazionaria», come spiegano le note di regia. Infatti gli anni passati fra le udienze e gli incartamenti del maxi-processo catanese hanno lasciato nella sua vita uno strascico di grigiore apatico, che pare illuminato solo dall’intrusione di un’altra realtà, filtrata attraverso le lettere. Da più di vent’anni infatti dura la corrispondenza fra il Giudice e il mafioso che egli ha condannato all’ergastolo.

© Masiar Pasquali

Lo scambio epistolare

La convenzione teatrale permette di rendere in praesentia il rapporto fra mittente e destinatario, che è per sua natura caratterizzato dall’astrazione ideale: quando scrivo, evoco in me l’immagine dell’altro, quasi un fantasma della mia mente. A teatro invece entrambi sono insieme sul palcoscenico: lunghi monologhi si alternano al vivace scambio di domande e risposte, come se il dialogo che si è costruito sulla carta e nel corso degli anni, avvenisse qui e ora. Nella sua operazione sul testo, Giordano ha dato peso specifico all’elemento linguistico: compassato, saggio e composto è lo stile del Giudice (un convincente Sergio Leone), colorita, semi-dialettale, disordinata, colloquiale, è invece la lingua dell’ergastolano Salvatore, uno straordinario Paolo Pierobon.

La “morte” dentro

La narrazione si sviluppa per quadri, che permettono una concentrazione per “respiri”. E quando la luce torna a illuminare la scena, ecco un’inversione di prospettiva spaziale, un nuovo dettaglio, un abito diverso, mentre a poco a poco le grate si fanno sempre più basse, per esprimere l’idea asfissiante dell’oppressione. «Fine pena: mai», recita la condanna di Salvatore, che nella disperata solitudine della cella ulula: «Mi lasciano qui a marcire per tutta la vita, a morire per tutta la vita». La vita infatti sta fuori; dentro invece tutto si è fermato, come fuori dal tempo. Anche il Giudice è morso dal dubbio: è giusto ma al contempo spietato sanzionare la morte civile di un individuo. È possibile offrire un riscatto al condannato?

© Masiar Pasquali

Il rapporto impossibile

Il Giudice invia a Salvatore una poesia di Nazim Hikmet, che termina con un invito alla dignità: «Dovunque tu sia, in qualunque circostanza tu sia, / devi vivere /come se mai tu dovessi morire». Certo, il percorso è difficile: Salvatore passa dall’ansia bulimica di conoscenza (corsi di studio e di formazione), all’isolamento, alla vertigine del primo permesso d’uscita, ma anche, in un sussulto di libertà-liberazione, prova la seduzione del suicidio, a cui allude il titolo del libro e dello spettacolo.

Ma allora c’è il rischio di parteggiare per il “cattivo”? Questo esito fin troppo banale è evitato grazie alle sfumature: non c’è una distinzione manichea fra i due personaggi, perché entrambi hanno momenti di debolezza, turbamento, indignazione o apertura. Il paternalismo del Giudice si stempera nei suoi interrogativi di uomo, schiacciato dal peso della responsabilità di una decisione che ha “bloccato” per sempre la vita di un altro individuo, ma al tempo stesso sa che la condanna era l’unica cosa da farsi. Salvatore in carcere soffre e matura, eppure non si pente mai dei suoi reati né ha da recriminare contro il giudice per la sua condanna. Due monadi agli antipodi, che mostrano però come il dialogo sia sempre possibile.

Consigliabile a tutti, per maturare dubbi e consapevolezza su un tema così delicato.

 

Fine pena: ora
drammaturgia di Paolo Giordano, dal libro di Elvio Fassone
regia di Mauro Avogadro
con Sergio Leone, Paolo Pierobon
Piccolo Teatro, Milano
fino al 22 dicembre 2017

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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