Emanuele Severino, nato a Brescia nel 1929, ha costruito la sua filosofia, incentrata su concetti come nulla, eternità, nichilismo, con raro rigore, forse ineguagliato, imponendosi come uno dei più importanti pensatori del nostro tempo.
La morte e l’Occidente
Secondo il suggerimento di Ludwig Wittgenstein: «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere».
Eppure, riflessioni intorno all’evento della morte hanno da sempre animato ideologie, confronti e dibattiti su tutti i fronti. Questo perché, parafrasando Elias Canetti, «di tacere della morte non ne siamo capaci». Tutti, infatti, sentiamo il bisogno costante di comprendere che cosa ne sarà del nostro io.
In particolare, lungo l’intera storia dell’Occidente, a partire dai Greci passando per il Cristianesimo e fino ad arrivare ai giorni nostri, la morte si inserisce nella corrente del divenire delle cose, del mondo. La morte rientra nella convinzione che gli essenti nascano e muoiano, ossia escano dal nulla per poi ritornarci. Anche per Tommaso d’Aquino il corpo che muore, non certo l’anima che è immortale per il Cristianesimo, diviene un niente («in nihilum cedit»).
Nella logica del pensiero occidentale, l’ultimo evento della vita, la morte, non è altro che la rappresentazione del divenire altro. Questa considerazione è ciò che nel pensiero di Emanuele Severino si identifica con l’estrema follia, la forma più rigorosa dell’errare che si allontana dalla struttura originaria in cui ogni essente è eterno. Dove per eterno non si intende «la potenza sovrastante del padrone; perché tutto è eterno. Non vi sono servi; non c’è nemmeno un padrone».
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Quando pensiamo al nostro passato, dalle azioni più umili a quelle più grandiose, riteniamo che oggi quelle azioni non siano più e, nonostante il permanere del ricordo, abbiamo fede nel fatto che esse siano divenute un niente. Per semplificare, riteniamo che la partita di pallone di ieri, oggi sia già divenuta un niente ma con ciò non crediamo che la partita di ieri fosse un niente, mentre calciavamo la palla non ci saremmo sognati di scambiare quel momento per un niente. Eppure quello che era un non-niente, il calcio al pallone, oggi si identifica col niente, proprio questa, in estrema sintesi, è la follia a cui tutto l’Occidente continua a prestare fede.
Nella nota iniziale di “Testimoniando il destino”, Severino ritorna sul tema della Follia estrema chiarendo un aspetto fondamentale per iniziare a percorrere quel sentiero filosofico che continua a segnalare:
L’alienazione essenziale, la Follia estrema è la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono. La filosofia, nascendo, porta al culmine questa fede, affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano. All’interno di tale fede cresce la storia dell’Occidente, e ormai la storia del Pianeta: non solo la storia delle sapienze, ma anche delle istituzioni, delle opere. E si giunge alla negazione inevitabile di ogni dimensione immutabile, quindi di ogni verità innegabile.
Legna e cenere
Severino, per dare evidenza a questo pensiero, utilizza la metafora della legna e della cenere, affermando che:
«La legna sta al vivente come la cenere sta al cadavere. La cenere è il cadavere della legna. Ma quando si esperisce la cenere, non si esperisce l’annientamento della legna. Quando si esperisce la cenere, questo esperire è il compimento di una serie di esperienze in cui appare la legna spenta, poi la legna accesa, poi la legna meno accesa, poi il suo cadavere, la cenere».
I singoli passaggi della combustione ci appaiono come il destino di ciò che già conosciamo: la morte, in realtà il divenire, inteso come annientamento, non può apparire e quindi non può nemmeno essere considerato un contenuto di esperienza. Ogni singola sequenza di questo processo, per Severino, non è altro che il manifestarsi di ogni essente nel cerchio dell’apparire. Per questo Severino afferma che la morte “è l’assentarsi dell’eterno” intendendo così questo accadimento come il progressivo allontanarsi degli eterni dal cerchio dell’apparire.
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Tornare alla metafora della legna che diventa cenere può aiutare a comprendere questo passaggio. La legna integra, dopo averla posta sulla brace, esce dal cerchio dell’apparire lasciando al suo posto dei carboni ardenti, e così via fino ad arrivare alla cenere. Non c’è un “divenir altro” o “un’entrata e un’uscita dal nulla”, bensì un entrare e un uscire dal cerchio luminoso dell’apparire, così come nel momento della morte di un uomo si assenta la manifestazione dell’eterno.
Il destino dell’uomo
Qual è allora l’autentico destino dell’uomo?
All’interno del pensiero portato in luce da Severino, ogni essente di cui si fa esperienza è e non può divenire altro da sé. Di conseguenza, l’uomo è eterno e il suo destino non può che essere un ritorno poiché siamo già da sempre oltre la vita, più che la vita. Questo è ciò che Severino definisce “destino della necessità”, lo sfondo originario e incontrovertibile a cui il sottosuolo filosofico dell’Occidente non ha prestato attenzione. In questa dimensione originaria, come affermato in Dispute sulla verità e la morte:
Il destino di ogni cosa, evento, istante è cioè di essere eterni. Nel destino appare quindi che il sopraggiungere delle cose della terra è il comparire e lo scomparire degli eterni. Il destino è il perché ultimo di tutto ciò che esso manifesta.
Il destino dell’uomo non è dunque la morte, come considerata dalla tradizione occidentale, ma l’apparire dell’esser sé di ogni essente.
La riduzione della morte a un niente oscura l’orizzonte autentico in cui si troverebbe l’uomo se non avesse fede nell’estrema follia che lo considera un mortale, obbligandolo così a «mendicare la propria salvezza dal baratro del niente presso un Dio oppure, come accade ora, presso la scienza. Siamo re che si credono mendicanti».
L’uomo è il contenuto di questa fede e non si riscoprirà “re” fino a quando non verrà meno il velo della tradizione.
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