Il tempo e lo spazio di sé
Per appropriarsi di uno spazio ci vuole tempo, come se ogni millimetro si misurasse meglio con le lancette di un orologio, più che un metro da perito geometra, forse perché anche il tempo a sua volta si muove nello spazio, e il trascorrere delle giornate non è altro che un ripetersi del cammino degli astri nella volta del cielo.
L’indissolubilità dello spazio dal tempo e viceversa non si riduce all’oziosa domanda del chiedersi chi abbia la priorità -viene prima l’uovo o la gallina?-, piuttosto è una presa di consapevolezza che può suggerire la giusta distanza a cui collocarsi per ripensare ai propri vissuti, al proprio passato.
Sapersi muovere nel proprio io con la velocità appropriata significa sapersi calare lentamente nei ricordi, perché tempo e spazio vanno a braccetto, senza la pretesa di scavalcare il tempo e ridurre lo spazio che ci riporta indietro, ma camminare a passi lenti, per andare lontano, nel passato o nel futuro, come abili funamboli.
In cammino nel tempo
Con delicata sicurezza, è il percorso che si delinea ne Il filo di mezzogiorno, in un dipanarsi sottile ma consistente alla ricerca di un’identità aggrovigliata: in scena dal 1 al 6 giugno al Teatro Franco Parenti, il romanzo di Goliarda Sapienza si adatta perfettamente a un luogo finalmente accessibile, il teatro aperto al pubblico, per concedere un meraviglioso procedere poetico nello spazio e nel tempo di una biografia fragile e preziosa, una scheggia luminescente da maneggiare con cura.
Dall’attento adattamento di Ippolita di Majo, la cura registica di Mario Martone dà corpo e voce all’ autobiografia di una donna che seppe raccontarsi con lucidità e lirismo, seguendo quasi in presa diretta le sedute del percorso terapeutico intrapreso con l’analista Ignazio Majore.
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La tenacia e l’eleganza di Donatella Finocchiaro combaciano perfettamente con l’interpretazione intima e audace di Roberto De Francesco, nei panni del medico curante.
Ridare spazio al tempo
La ricostruzione di un vissuto oscilla tra storia e Storia, in un’Italia che riecheggia per i bombardamenti della Seconda guerra mondiale tra la Sicilia, terra natia e la Capitale, muovendosi con il giusto ritmo alla ricerca di una memoria frantumata dagli elettroshock e una storia d’amore e di passione che sgretola ogni certezza.
Il mezzogiorno è il punto di incontro tra gli estremi, che si toccano per poi riallontanarsi, è l’ora delle sedute quotidiane tra paziente e analista, è l’ora della canicola che dà luce fino ad accecare, per poi scemare nelle ombre del passato tremendo della guerra e della clinica psichiatrica in cui Goliarda fu ricoverata.
Il momento di massima illuminazione trova il suo connubio negli anfratti più reconditi e bui della mente e del cuore.
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Accettare gli spazi, i tempi
Le parole sciolgono il filo della matassa dei pensieri e delle emozioni per mostrarne la verità intima e coraggiosa di chi osa alzare lo sguardo verso il sole di mezzogiorno, accettando il rischio della cecità, e quindi la consapevolezza di dover abbassare lo sguardo sulle lunghe ombre che la medesima luce può proiettare.
L’espediente teatrale potenzia la scrittura del romanzo autobiografico attraverso la creazione di due zone in cui è diviso il palcoscenico, riuscendo così a unire i mondi di Goliarda, l’onirico e la realtà, senza annullare la differenza, ma mantenendola sempre in atto.
Lo spazio scenico della finzione teatrale ne Il filo di Mezzogiorno diventa il luogo prediletto per un’azione verbale di scandaglio acuto e commovente, capace di smuovere lo spettatore e di invitarlo a prendere parte al medesimo cammino interiore, non tanto per banale immedesimazione con la storia dei personaggi, bensì attraverso l’ardita e riuscita scelta drammaturgica, registica e attoriale di rendere evidente la compresenza costante di luci e ombre, inconscio e realtà che la vita offre, senza risolvere annullando le opposizione, ma celebrandone la meravigliosa e terrificante potenza.
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