Ferruccio Busoni fu un genio inquieto e innovatore. Apostolo del nuovo, sostenitore coraggioso della libertà dell’arte, instancabile sperimentatore, recensore entusiasta della tecnica pianistica naturale Breithaupt, fu anche un originale teorico dell’interpretazione musicale.
Nella ormai celebre lettera aperta al critico Marcel Remy, apparsa sul Courrier musical di Berlino nel 1932, Busoni spiegava che il suo lavoro di pianista non consisteva nel modernizzare le opere ma nel «ripulirle dalla polvere della tradizione» e così «farle giovani». La Patetica di Beethoven, ad esempio, «sonata ai suoi tempi quasi rivoluzionaria, deve suonare rivoluzionaria».
L’interprete ha pertanto l’arduo compito non già di riprodurre l’opera bensì di farla rivivere riproducendo lo stesso effetto che produsse nel tempo in cui fu concepita. Le affermazioni di Busoni sono state spesso fraintese e tacciate come poetica della vaghezza e della ingenuità.
In verità, non si può comprendere la teoria dell’interpretazione di Busoni se non si confronta la lettera a Remy con l’Abbozzo di una nuova estetica della musica, vera summa della sua filosofia della musica e con altri scritti teorici.
Nell’Abbozzo Busoni affermava che il rispetto del testo non esaurisce il lavoro dell’interprete ma rappresenta solo l’inizio. La notazione veniva ridotta a «un ingegnoso espediente per fissare un’improvvisazione». L’interprete deve sciogliere la «rigidità dei segni e rimetterli in movimento», ponendosi così come co-autore, perché «quello che il compositore perde dell’ispirazione attraverso i segni, l’esecutore deve ricrearlo attraverso la sua ispirazione».
È agevole dedurre che Busoni affidava all’esecutore un compito altamente creativo che trascende la semplice esegesi del testo musicale.
Inoltre, per Busoni tutto il processo creativo, che si articola in composizione ed esecuzione, è riconducibile alla trascrizione, forma d’arte in cui egli fu Maestro indiscusso.
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In un articolo del 1910, Valore della trascrizione, l’insigne musicista concludeva che «gli uomini non possono creare; possono solo elaborare quanto già esiste sulla terra». Partendo da queste premesse, comporre non è altro che trascrivere un’idea astratta che balena nella mente dell’artista e l’esecuzione è anch’essa trascrizione di quanto già scritto da altri.
L’attività dell’interprete non si esaurisce nel ricostruire il significato storico dell’opera, come voleva l’ermeneutica storicista all’epoca imperante, ma nel ricrearla e così farla rivivere in un tempo diverso da quello in cui fu concepita. Solo così si può cogliere il valore metastorico, ideale e dunque eterno dell’opera, perché, come avvertiva Busoni, l’opera d’arte «è insieme dentro e fuori del tempo».
All’interprete, dunque, non si richiede soltanto padronanza della tecnica dello strumento ma molto di più. In uno scritto de 1910 dal titolo Cosa si richiede dal pianista, Busoni raccomandava carattere, cultura, gusto, «vasta intelligenza in tutte le discipline musicali e letterarie» e soprattutto esperienza delle cose della vita perché «colui per la cui anima non è passata una vita non dominerà mai il linguaggio dell’arte». E questo è un insegnamento imperituro da non dimenticare mai.
È noto che Busoni fu pianista sommo ma ha lasciato poche tracce della sua grandezza in alcuni rulli di pianola e qualche disco. Tuttavia, basta ascoltare il Preludio e Fuga n. 1 del Clavicembalo ben temperato di Bach e il Notturno op. 15 n. 2 di Chopin per rendersi conto di come il Nostro lavorasse sulla sonorità e sul timbro in maniera originale e innovativa rispetto ai suoi contemporanei.
Le teorie di Busoni sull’interpretazione restarono lettera morta per i musicisti e per i cultori dell’estetica del suo tempo.
I musicisti erano impegnati in ricostruzioni filologiche del testo, prigionieri di un neoclassicismo che non disdegnava anche il ricorso a strumenti musicali d’epoca. Quanto ai teorici della musica, l’estetica positivista era poco interessata ai problemi dell’interpretazione mentre l’estetica idealista di marca crociana, portata avanti in Italia da Alfredo Parente, considerava l’esecuzione mera riproduzione e pertanto estranea al concetto dell’arte.
Le parole di Busoni caddero nel vuoto ma oggi, a cento anni dalla sua morte, suonano attuali come un monito per tutti gli artisti di oggi e di domani.
Gaetano Esposito
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