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Fëdor Dostoevskij: la crisi folle dell’onestà ne «Il Sosia»

3 minuti di lettura

dostoevskij 1Fra i nomi della letteratura europea ottocentesca quello di Fëdor Dostoevskij (1821-1880) è indubbiamente fra i più noti, tanto da diventare fertile terreno per le definizioni di pre-esistenzialista, freudiano o perfino nichilista. Non a caso Pasolini lo considera apripista per gli orizzonti traguardati da Freud, e per la nuova forma narrativa di realismo surreale inauguratasi con Kafka. Al di là delle formule teoriche, il genio dello scrittore nato a Mosca è dotato di quella potenza che, da che letteratura è letteratura, rende eterne le storie raccontate dalle parole.

Delitto e castigo (1866) e I fratelli Karamazov (1879) sono titoli entrati nell’ immaginario collettivo per identificare il romanzo ottocentesco, specialmente russo. «Un solo filo d’erba, un solo scarabeo, una sola formica, un’ape dai riflessi d’oro… testimoniano d’istinto il mistero divino»

Questa famosa citazione tratta da I fratelli Karamazov illustra l’impianto filosofico che supporta i più famosi lavori di Dostoevskij, frutti della sua fase matura. Il socialismo, cioè, inteso come problema prima di tutto religioso, e non solo culturale.

Ma questo è solo l’approdo finale di una tormentata ricerca poetico-intellettuale, la cui miccia è l’esperienza dei lavori forzati in Siberia dal 1850 al 1854, con l’accusa di atteggiamento sovversivo. Prima di questo spartiacque Dostoevskij pubblica, nel 1845 dopo l’ acclamato esordio di Povera gente, un romanzo che fa discutere la critica.

Il sosia desta lo scetticismo dei critici, giacché si aspettavano il prosieguo naturale della tradizione del romanzo realista: lo scrittore ventiquattrenne ha invece il progetto ambizioso di mettere sì in scena, rispondendo alle aspettative, la storia di un grigio omino della piccola borghesia pietroburghese, ma raccontandone la deriva folle.

dostoevskij il sosiaJakov Petrovič Goljadkin è un pubblico impiegato che per fare carriera è costretto ad ingraziarsi i superiori, andando contro la propria natura mite e pudica. Tale natura, com’è tipico degli animi timidi, gli causa una grande difficoltà a stringere rapporti sociali e a perseguire il modello di comportamento richiesto dall’alta borghesia. È eloquente il ritratto della sua tenera innocenza nelle prime pagine, mentre giace sul letto «da uomo non ancor pienamente sicuro se si sia svegliato o dorma tuttora, se esista nella veglia e nella realtà tutto ciò che intorno gli succede o sia il seguito delle sue disordinate e assonnate fantasticherie».

O ancora «la sua condizione […] rassomigliava alla condizione dell’ uomo ritto su un precipizio spaventoso[…]; l’abisso lo sottrae ed egli finalmente vi si slancia, affrettando egli stesso il momento della sua rovina».

«Il nostro eroe» – come lo soprannomina emblematicamente il narratore onnisciente ­- è in buoni rapporti con il consigliere di stato Olsufil Ivanovič Berendèev, della cui figlia Klara Olsufievna è innamorato. Ma il protagonista è afflitto dalla mania di persecuzione: fra i colleghi scorge solamente malelingue, nemici che ostacolano la sua scalata sociale, fino al culmine. Il compleanno di Klara, e la voglia di affermare la propria dignità da uomo probo, che inesorabilmente perisce. Alla festa infatti, col cuore in sussulto, Goljadkin incontra la sua goccia d’acqua, un uomo col suo stesso aspetto, stesso nome, opposto animo: il suo sosia. Segue allora fino alla fine la rovinosa crisi del nostro eroe Goljadkin, vittima incompresa anzitutto da se stessa.

Sullo sfondo si staglia la possente Pietroburgo che è il teatro notturno in cui la nebbia, silenziosa, si abbassa e si dirada come un sipario sulle allucinazioni di un piccolo borghese sempre più pazzo. Infatti le scene in ambienti esterni, seppure rare, si scolpiscono nel paesaggio letterario, tratteggiate dall’ umidità e dal freddo di una sinistra San Pietroburgo.

Ambientazione che rispecchia, secondo consuetudine letteraria, l’interiorità del personaggio. Al dottore cui si affida, Goljadkin si presenta per l’appunto così, balbettando:

[…] Io amo la tranquillità e non il rumore mondano. Là da loro, nel gran mondo, intendo, bisogna saper lustrare i pavimenti con gli stivali… là pretendono questo, signor mio, e pretendono anche le freddure… bisogna sapere improvvisare un complimento fiorito… ecco ciò che là pretendono. Ma io tutto questo non l’ho imparato, tutte queste astuzie non le ho imparate: non ne ho avuto il tempo. Io sono un uomo semplice, senza pretese e in me non c’è splendore esterno.

Punteggiatura e scelte linguistiche evocano all’unisono le insicurezze (puntini di sospensione) e l’ alienazione dalla società (da ciò che esiste di «là»), che a loro volta abbozzano la figura del personaggio novecentesco.

Si ricordi, infine, l’ atteggiamento duplice di Dostoevskij stesso nei confronti del romanzo. Se prima dell’ esilio in Siberia l’oceano di debolezze del pover’uomo si risolveva unicamente nella follia, in seguito si fa più complicato lo sguardo introspettivo dello scrittore, più articolato – approdando ad uno smodato amore per i messaggi spirituali cristiani. Il vecchio e conservatore Dostoevskij ricorderà infatti in un articolo del 1867 che «la forma di questo romanzo non mi riuscì per niente» ma «la sua idea era piuttosto felice, e io non ho mai sviluppato nella letteratura niente di più serio di questa idea».

A riprova dell’universalità della lotta – allo stesso tempo fragile e insignificante – portata avanti dall’uomo onesto per identificarsi nella società industriale,  vi è una definizione di “duplicità” in una lettera del 1880 dello scrittore: «È un grande tormento, ma nello stesso tempo anche un grande piacere. Si tratta di una intensa coscienza, di un’esigenza di auto rendiconto e di presenza, nella sua natura, dell’esigenza di un dovere morale verso se stessi e verso l’umanità. Ecco che cosa significa questa “duplicità”».

Andrea Piasentini

Rene-Magritte

Immagine di copertina: : commons.wikimedia.org

 


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