È stata inaugurata domenica 3 ottobre, e durerà fino a domenica 9 gennaio 2022, presso il celebre Mart (Museo di arte moderna e contemporanea) di Rovereto (TN) una mostra che farà parlare di sé, non tanto per i pezzi esposti, quanto per il tema trattato: Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura italiana del Rinascimento.
Quando si tratta del tema della falsificazione artistica, l’opinione pubblica e degli esperti si divide tra chi condanna questa forma di inganno a spada tratta e senza alcuna possibile attenuante, e chi invece si sbilancia verso una comprensione più profonda del fenomeno, arrivando persino ad apprezzarlo nelle sue manifestazioni più importanti. È probabilmente quest’ultimo il caso del presidente del Mart, Vittorio Sgarbi, ideatore della mostra, che ha affidato l’aspetto curatoriale allo specialista Dario Del Bufalo e allo scrittore Marco Horak.
L’anima del falsario: la vita di Alceo Dossena
«Il vero falsario ha una personalità, non è un copista o un imitatore».
Vittorio Sgarbi
Nato a Cremona nel 1878, Alceo Dossena rappresenta una delle figure più affascinanti ed enigmatiche del panorama artistico “sotterraneo” di sempre. Per quanto il mondo della falsificazione di opere d’arte sia ricchissimo di personaggi eccentrici e intriganti, pochi sono stati in grado come Dossena di dimostrare il proprio talento, non solo tecnico, oltre ogni possibile dubbio. Sin dalla giovane età, come le didascalie distribuite lungo le pareti della mostra ben espongono al visitatore, il falsario dimostrò un’abilità tecnica senza pari e un ingegno non da meno. Si racconta, infatti, che Dossena venne espulso dalla scuola d’arte per uno scherzo, che ad oggi può essere visto come un’anticipazione di ciò che sarebbe poi stata la sua vita: realizzata una statuetta di Venere, il futuro falsario la sotterrò nell’area in cui degli operai stavano scavando. Una volta ritrovata, questa venne dichiarata antica dallo stesso professore di Dossena che, una volta svelato l’inganno, venne cacciato.
Leggi anche:
«La tempesta» di Giorgione: mistero e bellezza
Trasferitosi a Parma e poi a Roma, durante la guerra incontrò due antiquari, Alfredo Fasoli e Alfredo Pallesi, i quali, notato il talento dell’uomo, gli commissionarono delle statue alla maniera antica per poi venderle come autentiche. Molte di queste vennero acquistate negli Stati Uniti e il traffico proseguì indisturbato per anni. Attorno al 1927, cominciarono a circolare voci secondo le quali nella capitale italiana operava un artigiano autore degli straordinari “ritrovamenti”. Nell’anno successivo lo scandalo raggiunse dimensioni troppo grandi e Alceo Dossena decise di tagliare i ponti con i committenti e tentare la carriera di artista vera e propria, firmando i pezzi realizzati. Divenne famoso in poco tempo, ma altrettanto velocemente cadde in disgrazia. Morì povero e dimenticato a Roma nel 1937.
Come dichiarò lui stesso, Dossena non era compreso dai contemporanei quale grande artista perché ritenuto anacronistico. Nonostante l’avanzare prepotente e inarrestabile delle avanguardie artistiche di inizio Novecento, il collezionismo di opere d’arte medievali e rinascimentali vide negli stessi anni un picco considerevole, soprattutto all’interno delle grandi casate nobiliari che, legate a tradizioni e riti d’altri tempi, mal tolleravano la confusione provocata da artisti appartenenti, ad esempio, a Dadaismo, Cubismo o Surrealismo. Tuttavia, non era di nuovi pezzi che andavano in cerca, ma di originali. Come spesso accade, però, la domanda era maggiore dell’offerta e gli abili artigiani, – forse sarebbero da considerare artisti italiani quali ad esempio Giovanni Bastianini, Gildo Pedrazzoni, Icilio Federico Joni, oltre ovviamente ad Alceo Dossena – non tardarono a soddisfarla.
L’aura dell’opera che si moltiplica: il percorso espositivo
Il percorso espositivo si suddivide in diverse sale tematiche ma sempre comunicanti tra loro. Il visitatore è accolto da informazioni tecniche riguardo alla mostra e da spunti iniziali in merito a quelli che saranno i protagonisti e i temi principali trattati nell’esposizione. Per quanto centrale, infatti, Alceo Dossena non è l’unico falsario esposto.
La mostra inizia con una riproduzione dell’atelier dell’artista, con pezzi esposti su tavoli di legno accanto a scalpelli e cocci sparsi sul pavimento. Questa veduta separa due schermi di piccole dimensioni su cui è proiettato un documentario realizzato nel 1929 da Hans Cürlis, Artists at work N.I. Alceo Dossena, in cui è mostrato il falsario all’opera. La velocità e l’apparente semplicità dei gesti rapisce immediatamente l’osservatore e lo introduce compiutamente all’interno dello spirito e della mente del protagonista, avvicinandolo al suo operato e, dunque, in qualche modo, impedendo una condanna a priori dello stesso.
Proseguendo nelle sale successive ci si trova a camminare tra opere scultoree di generi, tempi, materiali e stili estremamente diversificati, per quanto la prevalenza sia, ovviamente, di opere a soggetto sacro – numerosissime sono, ad esempio, i bassorilievi in marmo di Madonne con bambino –, ma non mancano mezzi busti di personaggi appartenenti al patriziato medievale e rinascimentale, oltre a qualche pezzo in stile ellenistico.
La mostra si conclude con due esempi di quelli che vengono definiti “falsi autentici”. Quelli mostrati sono forse due degli episodi più famosi della falsificazione degli anni recenti: le teste di Modì realizzate per scherzo da tre studenti livornesi alla maniera di Amedeo Modigliani e poi gettate nel Fosso reale della città, dove si diceva che Modigliani avesse gettato delle bozze di cui non era soddisfatto, e ritrovate in occasione dell’importante mostra dedicata al maestro livornese; alcune tele di Lino Frangia, artista-falsario in grado di spaziare tra i più grandi artisti di tutti i tempi come Raffaello, Tiziano, Sustris.
Una mostra per la mente: impressioni
La mostra presentata al Mart presenta molti punti forti e altri trascurabili. La stimolazione visiva non è particolarmente coinvolgente, tuttavia colpisce molto la veridicità dei segni del tempo: è difficile credere che quelle che si osservano siano opere non di cinque secoli fa ma vecchie a mala pena di uno. Una delle maggiori abilità di Dossena, infatti, come testimoniato da diversi critici e storici, era proprio conferire i segni del tempo alle proprie realizzazioni mediante una tecnica tanto semplice quanto geniale: una volta che aveva quasi ultimato la statua, Dossena la immergeva ancora grezza in diverse soluzioni che avrebbero permesso alla pietra di sporcarsi in profondità grazie alla sua porosità. Solo successivamente procedeva alla levigatura e poi, eventualmente, alla rimozione strategica di parti fragili come dita o naso, in modo da renderla più credibile.
A un osservatore attento e allenato è possibile, inoltre, vedere in alcuni oggetti esposti, – forse solo a posteriori e consapevoli di ciò che si ha di fronte -, delle influenze del tempo di realizzazione dell’opera. Molti falsari, infatti, non si limitano a copiare oggetti d’arte già esistenti, ma si calano nello spirito degli antichi e realizzano, ideandoli loro stessi, dei falsi originali. Ad esempio, alcuni volti riportano dei tratti quasi primitivi, simili alle pitture e sculture cubiste di inizio secolo scorso. Forse è un richiamo azzardato e totalmente immaginato, ma è importante ricordare che, in linea di massima, un falsario può ingannare solo i propri contemporanei, in quanto inevitabilmente e irrimediabilmente influenzato dal proprio tempo. Non è possibile, infatti, per quanto abbia dichiarato: «Io sono nato nel nostro tempo ma con l’anima, col gusto e la sensibilità di altre epoche», che Alceo Dossena non conoscesse i grandi avanguardisti a lui contemporanei, o che adottasse in tutto e per tutto le tecniche antiche, fosse anche solo per gli strumenti e i materiali, a inizio Novecento decisamente evoluti rispetto a quelli del Medioevo.
Per quanto il tema, quindi, possa essere affascinante e coinvolgente – tutti sono affascinati dai criminali buoni e talentuosi, anche se non lo si ammette – le opere in mostra non risultano particolarmente coinvolgenti o commoventi a livello visivo, se non, forse, per un grande appassionato di arte plastica medievale. Ma, con ogni probabilità, non è questo lo scopo dell’esposizione, che permette invece di riflettere sull’ambiguità insita nel mondo dell’arte, di cui la falsificazione è una sfaccettatura antica quanto l’arte stessa e che non si può ignorare. Quest’ultimo aspetto è tradotto e stimolato egregiamente dalle didascalie che accompagnano il visitatore nelle diverse sale e che lo spingono a riflettere e mettere in dubbio ciò che è canonicamente accettato come giusto e autentico. Il falso nell’arte è dunque una mostra per la mente più che per gli occhi.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!