Fabrizio Crisafulli, regista ed esponente del teatro italiano di ricerca, si è distinto nel panorama artistico nazionale e internazionale degli ultimi trent’anni, per la sua ricerca sulla luce come elemento essenziale nella poetica e nella drammaturgia teatrale. Oltre ad essere riconosciuto per la sua innovativa pratica legata alla luce, Crisafulli ha introdotto il concetto di “teatro dei luoghi“, dove il luogo stesso diventa una fonte generativa della creazione teatrale.
Come si è avvicinato e come ha sviluppato l’interesse verso il mondo del teatro?
Mi sono avvicinato al teatro all’inizio degli anni Settanta a Roma, dove ero giunto da Catania per studiare architettura. In quel periodo iniziai a seguire il teatro delle cosiddette “cantine romane”: spazi inusuali come garage, magazzini e locali sotterranei di diverso tipo, dove allora si aggregava il teatro di ricerca, con personaggi come Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Mario Ricci, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò. In particolare, ho seguito per anni il lavoro di quest’ultimo, che è stato il regista de Le centoventi giornate di Sodoma, lo spettacolo che nel 1972 lanciò il fenomeno delle “cantine” e del cosiddetto “teatro-immagine”. Il lavoro di questi registi non consisteva nella semplice trasposizione in scena di testi teatrali. Seguiva una procedura diversa: la cosiddetta “scrittura scenica”. La struttura drammaturgica dello spettacolo, cioè, non veniva ripresa dal testo drammatico, ma costruita prevalentemente nello spazio, durante le prove. E si avvaleva in maniera consistente, oltre che delle parole, del corpo, del movimento, del suono, della luce.
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Quindi, è stata un’esperienza che l’ha ispirata per i suoi lavori successivi? Mi riferisco all’idea di lasciarsi trasportare dal luogo, utilizzandolo come elemento testuale, in un certo senso.
Sì, c’erano sicuramente alcuni semi di quello che in seguito ho definito “teatro dei luoghi”. Nel lavoro di Vasilicò, ad esempio, il luogo delle prove era un potente elemento generativo del lavoro. In quella fase mi interessavo molto anche di urbanistica. Era un periodo nel quale si pensava di poter cambiare il mondo e l’urbanistica sembrava potesse offrire delle chances in questo senso. Per un lungo periodo effettuai studi ed inchieste sull’assetto del territorio e sull’ambiente. Nel far questo, entravo in contatto non solo con i problemi, ma anche con gli immaginari della gente che incontravo. Ciò ha contribuito notevolmente all’elaborazione del mio successivo progetto “teatro dei luoghi”, nel quale il luogo viene considerato terreno per la creazione di nuove visioni. Le mie due formazioni, quella architettonico-urbanistica e quella teatrale, sono ad un certo punto confluite in un’unica direzione di ricerca.
Lei ha un forte legame con la scrittura. Ha scritto molti libri. La scrittura, in qualche modo, contribuisce a concretizzare e delineare il suo lavoro di ricerca?
La scrittura è un percorso parallelo alla pratica. Ma do più importanza a quest’ultima. Le mie riflessioni sul teatro derivano dal fare. Mi servono per delineare dei punti di riferimento per andare avanti, e non per stabilire norme. Mi sono utili a capire in che direzione sto andando, anche per comunicarlo agli altri: a chi lavora con me, e non solo. Ma poi la ricerca progredisce soprattutto nel lavoro concreto, e questo mi porta a rimettere continuamente in discussione la teoria. Se non fosse così, del resto, non si tratterebbe di ricerca.
Ritornando invece al teatro dei luoghi, quali sono le caratteristiche fondamentali che deve avere un luogo?
Tutti i siti sono potenzialmente adatti per un intervento di teatro dei luoghi; non è necessario che si tratti, ad esempio, di un sito di interesse storico-artistico, bello, affascinante. Possono dimostrarsi interessanti anche siti “banali” o marginali. Anch’essi dicono molte cose. In ogni caso, raramente capita di scegliere il posto dove creare un lavoro. Generalmente chi produce, ente locale o festival, propone un luogo, o un ventaglio di luoghi tra i quali scegliere. L’unica discriminante nella scelta è la sicurezza. Se si tratta di fare un percorso in campagna, in un parco archeologico o in un bosco, ad esempio, si deve stare attenti che vi si possano garantire condizioni di sicurezza per il pubblico, che magari deve spostarsi a piedi di notte lungo un percorso.
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Com’è il suo approccio nei confronti dei teatri all’italiana?
Faccio spettacoli sia per siti non teatrali, che per il palcoscenico. Ci sono problemi diversi nei due casi, ma credo che il mio modo di lavorare tenda a smussare le differenze. Un esempio: la mia idea di “teatro dei luoghi”, in fondo, era già presente in alcuni spettacoli dei laboratori sulla luce che ho condotto per tanti anni, dalla fine degli anni Ottanta, su palcoscenici di teatri all’italiana. Erano lavori che chiamavo “drammi della tecnica”, in cui il palco e le sue attrezzature divenivano i protagonisti di performance molto ironiche, fatte di oggetti, luci, dispositivi, immaginifiche azioni di macchinisti-performer. Il palco e i tecnici non erano più strumenti al servizio di altro: erano i soggetti dello spettacolo. Costituivano il “luogo”, con le sue memorie (della scenotecnica, delle rappresentazioni), le sue capacità evocative, le sue potenzialità relazionali e poetiche. Il concetto di teatro dei luoghi era applicato al palcoscenico. Un altro esempio: ho realizzato, nel tempo, diversi spettacoli-percorso che coinvolgevano tutti gli spazi interni del teatro, come il palcoscenico, il sottopalco, i ballatoi, i camerini, la sala, il foyer e via dicendo. Non tenevo conto delle divisioni spaziali convenzionali: un luogo per lo spettacolo e uno per il pubblico. Il teatro all’italiana veniva assunto come “luogo” nel suo complesso.
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Nelle sue opere la luce ha un ruolo fondamentale. In che modo si relaziona ad essa?
Fin dagli inizi, ho fatto parecchia ricerca sulla luce. La consideravo un aspetto molto trascurato in teatro, sul quale c’era bisogno di indagare. Mi colpiva poi questo strano paradosso: mentre nella realtà la luce è elemento primario, generativo, energetico, che infonde vita e condiziona fortemente i tempi e l’organizzazione della nostra vita, nelle pratiche sceniche è invece generalmente un elemento secondario, quasi di servizio o, all’opposto, un mezzo per ottenere “effetti”. Come se non vi fosse la possibilità di impiegarla in senso sostanziale e costruttivo. Non a caso, nelle pratiche comuni, la luce viene approntata negli ultimi giorni delle prove. Molti anni fa cominciai a ragionare su questa incongruenza. Già negli spettacoli delle “cantine romane” avevo trovato, con mia grande felicità, un’idea di luce molto diversa. Nei lavori di Vasilicò, ad esempio, la luce era un elemento energetico forte, che dettava il montaggio e i tempi drammatici dello spettacolo. Già nei primi anni del mio insegnamento (ho insegnato per trentacinque anni nelle Accademie di Belle Arti e adesso al DAMS di RomaTre), indirizzai parte della mia attività didattica alla luce. Con gli studenti ho realizzato per anni spettacoli senza testo e senza attori, fatti solo di luce, oggetti, suono, come quelli cui ho fatto riferimento prima. La lunga esperienza dei laboratori mi è servita a verificare le potenzialità che la luce possiede di elaborare un proprio linguaggio autonomo, attraverso il quale svolgere negli spettacoli un ruolo attivo. È stata una ricerca collaterale rispetto al mio lavoro di regista. Una ricerca che, negli spettacoli creati con la mia compagnia, mi ha indotto a dare alla luce un ruolo strutturale e molto influente rispetto ai performer e agli altri elementi dello spettacolo: un ruolo rilevante e incisivo come quello della luce nella realtà.
Cosa pensa riguardo a questo avanzare delle nuove tecnologie e come dovremmo approcciare la questione?
Quando si parla di luce in teatro, generalmente il pensiero va alla tecnologia, e non ad altri aspetti come, ad esempio, la poesia. Questo è il frutto di una visione tecnicistica molto diffusa per quanto riguarda la luce, tra gli addetti non meno che tra i profani. Io penso che si possa fare uno spettacolo complesso dal punto di vista della luce, anche usando una sola candela. Perché la luce di quella candela può relazionarsi in infiniti modi con lo spazio, gli oggetti, gli attori, creando situazioni di luce e di ombra diversissime tra loro. Non sto pronunciandomi a favore della bassa tecnologia. Penso che si possano ottenere risultati eccellenti usando l’alta tecnologia. La questione è che la qualità del risultato non dipende dalla tecnologia, alta o bassa che sia, ma dalle idee.
Detto questo, ho ovviamente un grandissimo interesse per le tecnologie nascenti, ma penso anche che da esse non bisogna farsi “superare”. Le soluzioni dobbiamo trovarle noi, non gli strumenti. Sono gli artisti a dover dare indicazioni alla tecnologia, non il contrario. Non bisogna, ad esempio, pensare di saper fare un progetto-luci solo perché si sa usare un software, come mi sembra succeda a volte tra gli operatori più giovani.
Per quanto riguarda l’oggi, vedo molta incertezza legata all’arrivo dell’intelligenza artificiale. Ma paradossalmente il teatro, che nei decenni passati aveva sofferto, più di altre arti, crisi d’identità legate all’introduzione delle nuove tecnologie, potrebbe ora risentire dei cambiamenti meno di altri ambiti dello spettacolo come il cinema, la televisione o il video. Ormai, la credibilità delle immagini prodotte con l’intelligenza artificiale sembra prefigurare in questi settori un’inquietante desertificazione del processo produttivo. Per realizzare un film o una serie tv potrebbero non essere più necessari attori, set e luci reali. Il prossimo creatore di film potrebbe essere una specie di “scrittore” che crea la propria opera “scrivendo” con attori, immagini e suono digitali. Forse è presto per dirlo, ma il teatro e lo spettacolo dal vivo, che si basano sulla concretezza degli spazi e delle relazioni, sembrano irriducibili a questo tipo di cambiamento. Con l’affermarsi dell’intelligenza artificiale, potrebbero anzi beneficiare di un ritorno d’interesse, in quanto arti della fisicità, della vicinanza, dei rapporti sottili. E della luce reale.
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