Il corposo saggio di Jürgen Renn L’evoluzione della conoscenza, pubblicato in inglese nel 2020 e ora tradotto anche in italiano per Carocci editore, rappresenta senz’altro il tentativo più sistematico e riuscito di introdurre la prospettiva della storia della scienza all’interno del dibattito sull’Antropocene, raccogliendo, in un quadro di grande ricchezza teorica, i risultati di più di ventennio di lavoro sulla storia e la teoria della conoscenza scientifiche svolto al Max Planck Institute for the History of Science di Berlino (MPIWG).
L’obiettivo del saggio è ambizioso: si tratta, per Renn, di «integrare la storia della scienza in una storia globale della conoscenza» al fine di elaborare un paradigma capace di affrontare, da un punto di vista pratico-teorico, i problemi posti dalla nuova epoca geologica che segnerebbe la storia della Terra: l’Antropocene. L’epoca geologica nella quale l’impatto umano sul Pianeta Terra ha alterato gli equilibri complessivi di quest’ultimo rappresenta infatti agli occhi di Renn «il punto di fuga naturale» per uno studio dell’evoluzione culturale, e il «contesto più adatto» per tracciare una storia della conoscenza.
Storia materiale, prassi, azione
Jürgen Renn è stato direttore dell’istituto berlinese dal 1996. Sotto la sua guida, il MPIWG ha preso una direzione precisa, concentrando il suo focus sulla, scrive Renn, «meccanica intesa non tanto come specifica disciplina scientifica, ma storia delle conoscenze meccaniche». L’idea alla base di questa direzione di ricerca, e che costituisce il cardine sul quale ruota l’intero volume di Renn – è che il processo di formazione della conoscenza dipenda dalle pratiche materiali che hanno la loro base nella società.
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In altri termini, la genesi della conoscenza avviene nell’interazione circolare fra i mezzi materiali e le strutture cognitive che essi producono, i quali si modificano reciprocamente. I «mezzi materiali […] generano quindi una struttura cognitiva, determinando un sistema costituito dalle conseguenze delle azioni». Le strutture cognitive, a loro volta «influenzano le azioni concrete» e possono «guidare lo sviluppo di mezzi materiali nuovi o migliori, che consentono azioni e applicazioni al di là di quelle codificate nelle strutture date».
La concezione “pragmatica” della conoscenza che Renn adotta trova in Jean Piaget e Karl Marx i suoi punti di riferimento teorici. Da un lato, Piaget fornisce l’idea che il processo di astrazione derivi dalla prassi, dalle azioni del soggetto; dall’altro, Marx indica la costitutiva dimensione materiale e sociale del sapere. L’approccio adottato da Renn, dunque, è esplicitamente «dal basso verso l’alto», ovvero assume che la circolazione e lo sviluppo della conoscenza, al loro livello fondamentale, siano sempre mediati dall’interazione fra azioni individuali o collettive e mezzi meccanici. Tanto che, scrive Renn:
«Qualsiasi aspetto concreto di un’azione – i mezzi o gli strumenti impiegati, l’azione stessa, i gesti o i suoni che l’accompagnano – possono essere considerati come un’incarnazione materiale della conoscenza».
Da ciò derivano due conseguenze importanti. La prima è che la conoscenza – la cui «spina dorsale è proprio la «cultura materiale» – è profondamente storica, ossia evolve nel tempo. L’obiettivo forse più ambizioso del saggio di Renn è proprio quello di fornire una teoria di tale processo. La seconda è che la conoscenza non è mai privata, ma sempre mediata socialmente.
L’Antropocene
Questo quadro teorico, delineato da Renn nel corso di più di 500 pagine, giunge ad affrontare nella quinta parte de L’evoluzione della conoscenza la questione cruciale dell’intero lavoro: l’Antropocene. Come detto più sopra, infatti, la domanda che ha guidato Renn lungo il percorso attraverso l’evoluzione della conoscenza è: che tipo di conoscenza è necessario elaborare per convivere con l’Antropocene?. L’Antropocene costituisce l’esito non necessario di questa lunga storia, che – è questo il punto di Renn – non si è chiusa, ma appella l’umanità a riconfigurare il proprio rapporto con la conoscenza.
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L’Antropocene, dalla prospettiva di Renn, rappresenta un concetto legato alla nostra evoluzione epistemica. È solo in virtù dei progressi della scienza (in particolare delle scienze del Sistema Terra), e dal progressivo emanciparsi della scienza dall’evoluzione culturale, che esso è diventato concepibile. Come specifica giustamente Renn, l’Antropocene è prima di tutto un «terminus technicus geologico»: la sua definizione, cioè, è legata agli standard caratteristici della disciplina geologica nello stabilire i propri schemi di classificazione temporale. Ciò significa, da un lato, che il concetto detiene una sua coerenza e autonomia all’interno del contesto disciplinare di appartenenza. Dall’altro, però, che «manca di potere esplicativo poiché non ci dice nulla rispetto alle responsabilità complessive che hanno portato ad esso».
Questo è un punto fondamentale. In primo luogo, perché permette a Renn di sostenere la necessità, almeno all’interno del discorso scientifico, del concetto di Antropocene di contro a chi ne nega l’utilità in virtù del suo carattere universale o politicamente astratto. In secondo luogo, riconfigura quella che Renn chiama «la questione delle origini». Tentare di descrivere la traiettoria dell’Antropocene è stato un problema sul quale il dibattito si è concentrato sin dalla sua nascita. Ora, secondo Renn, l’Antropocene, proprio in quanto terminus technicus non ci dice nulla sui motivi e sulle responsabilità che hanno portato ad esso, non ci dice nulla, per l’appunto, sulle cause della sua origine. Descrive semplicemente la realtà di uno stato di cose.
«Né l’inizio dell’evoluzione epistemica né quello dell’Antropocene possono essere facilmente assegnati a una data, una causa o un’origine singolari; da questo punto di vista, la domanda principale non è tanto chi o cosa abbia portato a questa nuova era geologica, quanto in che modo l’umanità possa conviverci».
L’Antropocene, in questo senso, rappresenta senz’altro un concetto scientifico, ma anche, si potrebbe dire, una “condizione”, (come scrive giustamente P. Missiroli, Teoria critica dell’Antropocene, Mimesis 2022) ossia – per riprendere il lessico del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty – un “campo di possibilità” per l’azione, regolato da vincoli materiali legati alle dinamiche del sistema Terra, che dipende strutturalmente dalla conoscenza (secondo Renn, scientifica) che ne abbiamo e della nostra interazione con esso.
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Di qui, l’esigenza di una nuova scienza capace di inquadrare le dinamiche complesse – naturali, sociali, tecnologiche – che plasmano la nostra congiuntura geo-storica. Tale paradigma, secondo Renn, ha un nome: geoantropologia. Si tratta di una prospettiva teorica muldisciplinare capace di tenere insieme i risultati provenienti dalle scienze del sistema Terra e quelli delle discipline più vicine ad uno studio storico-culturale dei processi che hanno portato all’Antropocene.
Questo paradigma, coerentemente con l’intera proposta di Renn, non ha come fine solo la conoscenza sempre più approfondita dei sistemi fondamentali che regolano gli scambi energetici e materiali del nostro pianeta, ma anche il ruolo della conoscenza nel collegare tutti questi processi. Si tratta di una conoscenza riflessiva, capace di valutare la propria posizione all’interno del quadro. È per questo che il lavoro umanistico – della filosofia in particolare – è altrettanto importante di quello scientifico.
Ergosfera
Lo si vede bene nella discussione finale sviluppata da Renn intorno all’interessante concetto di “ergosfera”. Si potrebbe suggerire, infatti, che la questione filosofica che anima il tentativo di Renn di tracciare un quadro dell’evoluzione della conoscenza sia quella della libertà. Esiste, nel presente, uno spazio d’azione per l’umanità o la congiuntura geo-storica attuale – l’Antropocene – segna la fine della storia? Le proposte filosofiche à la Bruno Latour, che sostengono la necessità di lasciarsi plasmare delle indefinite agencies culturali/naturali, così come le soluzioni accelerazioniste dell’ecomodernismo, che invece vedono nella totale subordinazione del pianeta alla gestione tecnologica il futuro dell’umanità, condividono, da questa prospettiva, un presupposto teorico comune: «l’allontanamento dall’impegno nell’agire umano concreto».
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Per rivendicare il potere di trasformazione del lavoro umano, sia nei confronti dell’ambiente globale che dell’umanità stessa, Renn introduce il concetto di “ergosfera”, il quale «ha lo scopo di cogliere […] il potere trasformativo e non intenzionale degli interventi antropici, e i confini terrestri entro cui questi avvengono». Solo tramite il lavoro è possibile modificare non solo le dinamiche complesse che interessano l’Antropocene, ma anche il nostro modo di conoscerle – il che significa, conseguentemente, i limiti imposti al lavoro stesso.
«il mondo materiale dell’ergosfera è costituito da oggetti al confine tra natura e cultura, in grado di provocare innovazioni e conseguenze imprevedibili. Essa possiede una plasticità e una porosità in cui materiali e funzioni non risultano così strettamente intrecciati da escludere la rielaborazione di strumenti già esistenti in vista di nuovi utilizzi».
Per questo motivo, tale concetto «ci invita a considerarci come parte di un processo coevolutivo in cui le nostre opportunità di azione dipendono dalla conoscenza che siamo in grado di ottenere». Non è un caso allora che in esergo al capitolo che termina il saggio si trovi la famosa citazione di Marx tratta dai Manoscritti del 1844: «La scienza naturale col tempo incorporerà in sé la scienza dell’uomo, proprio come la scienza dell’uomo incorporerà in sé stessa la scienza naturale: ci sarà una sola scienza».
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