I nostri tempi, ormai lo sappiamo, sono particolarmente inquieti. A due anni dall’inizio della pandemia e a quattro mesi dallo scoppio del conflitto russo-ucraino siamo sicuri di star vivendo il ritorno della storia. In questo contesto, emerge con forza crescente la necessità, il desiderio di ripensare l’identità, i princìpi e lo stile di vita di noi europei. Così, sembra possibile (e auspicabile) ripercorrere l’illustre epopea culturale che abbiamo sulle spalle per vedere se, in qualche anfratto storico, risiedono concetti, idee e pensieri in grado di essere, ancora una volta, le nostre guide, i nostri maestri. In questo senso, è possibile interrogare un pamphlet di una grande intellettuale del XX secolo, Maria Zambrano, che scrisse un breve e fulminante saggio intitolato L’agonia dell’Europa (La agonía de Europa, tr. it. C. Razza, Marsilio, Venezia 1999).
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La filosofia europea nel 1940
Nel 1940, quando Maria Zambrano inizia la stesura del testo, i discorsi sul declino, lo smarrimento e la crisi della civiltà europea erano ormai assodati e diffusi, quasi di senso comune. Autori diversissimi come Nietzsche, Freud, Husserl, Spengler e Bergson avevano portato alla luce, nei loro scritti, la decadenza che l’Europa viveva. Zambrano sa di essere soltanto l’ultimo capitolo di una vera e propria corrente, infatti, il testo si apre con un riconoscimento, da parte dell’autrice, di questa filiazione: «da parecchi anni si va ripetendo: l’Europa è in decadenza. Adesso non sembra più necessario dirlo» (ivi., p. 11).
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Nel momento esatto in cui l’autrice scrive l’Europa (e il mondo intero) sta vivendo la sua pagina più buia, Zambrano non ritiene la guerra né un epilogo né una conseguenza diretta della decadenza europea. La causa del conflitto è, piuttosto, da ricercarsi nel risentimento ovvero quel sentimento a lungo soffocato pronto ad esplodere nel momento stesso in cui cade «ciò che si è mantenuto vittorioso durante i secoli» (ibidem). La lunga serie di vittorie e il fatto che «non sembra essersi compiuto l’anelito di una vittoria senza un vinto» (ivi, p. 13) genera la creatura risentita che «distrugge l’unica cosa alla quale potrebbe attaccarsi» (ivi., p. 12).
Così «al risentimento spetta la prima parte di quell’azione distruttrice che solo più tardi viene consolidata dalle armi» (ivi., p. 11). Sebbene sia l’anticamera della guerra, il risentimento, secondo Zambrano, ha l’inattesa, ironica e, per molti versi, insensata caratteristica di essere una rinuncia alla “violenza“.
Il concetto europeo di «violenza»
Secondo Maria Zambrano esiste un concetto europeo di violenza, una violenza peculiarmente europea che attraversa la storia del continente poiché, su di essa, l’Europa si è costituita. La domanda, dunque, è: «dove risiede l’origine della violenza europea? Fare questa domanda equivale a interrogarsi sulle origini dell’Europa, sulla sua nascita. E sulla sostanza della vita europea» (ivi., p. 34).
Questa violenza è intrinseca alla religione che l’Europa ha conosciuto, la religione cristiana, d’ascendenza ebraica e di ancora più antica origine orientale. La nostra fede tradizionale presenta il Dio più attivo e più violento di tutti, al punto che egli «dal nulla estrae il mondo» (ivi., p. 39). Questo estremo atto creativo della religione cristiana viene mediato con lo slancio dell’antica filosofia greca, desiderosa di «costituire un’oggettività» e di «salvare i fenomeni» (ivi., p. 41).
Questa prodigiosa mediazione avviene ad opere di Agostino (il grande riferimento intellettuale dell’intera produzione zambraniana) che «fa intervenire le idee platoniche nell’atto creatore» (ivi., p. 40). Secondo Zambrano si forma, qui, una peculiare saldatura fra umano e divino sconosciuta alle altre religioni, l’europeo «non si lancia in pasto agli dei» ma vuole, piuttosto, «fondare la sua storia, la sua creazione» (ivi., p. 43).
L’indipendenza storica dell’uomo europeo dal Dio della religione, porta la storia ad essere la «violenza definitiva che l’uomo può aver commesso» (ivi., p. 46). Secondo Zambrano la storia, di per sé, è disperazione umana, galleria d’angosce, perenne disastro, polvere e cenere: «ma queste ceneri hanno un senso» (ibidem). L’attribuzione di senso alla valle di lacrime della storia è il prodotto dell’atto, violento in massimo grado, che caratterizza l’umanità europea. In che forma esso è possibile? «tutto ciò in Europa è metodo, sistema. Violenza della conoscenza nella filosofia e nella scienza» (ivi., p. 47); una violenza intellettuale caratterizza «l’anelito più intimo e fervido dell’europeo, farsi un mondo dal suo nulla» (ivi., p. 48).
Comprendiamo, così il nesso inversamente proporzionale che intercorre fra violenza e risentimento. Esso esplode quando viene meno «la radice dell’eroico idealismo» europeo, ovvero quando ci ritroviamo incapaci di «sviluppare quel minimum di violenza» (ivi, p. 14) che ci permette di staccarci dai meri fatti per avviare l’atto creativo tramite cui costituiamo un mondo dotato di senso a partire da vuota materia.
Conclusione
Vediamo, dunque, in cosa consista quella aggressività più profonda e nobile esposta prima: si tratta di uno slancio storico e vigoroso, del secolare impegno attivo dell’europeo volto a trarre un mondo dalla cenere, un ordine dal caos, una pietra preziosa da una roccia inerme. Quando questa poderosa, devastante, potenza attiva viene meno sorge il risentimento, la commiserazione malinconica di sé stessi, la pura passività. Un’aggressività incivile, barbara e vanagloriosa che, aggredendo il passato, non sa di star sbarrando la strada del futuro e di soffocare il presente. Ottenendo, unicamente, un’agonia antivitale in cui l’Europa di Maria Zambrano tergiversava e che, forse, si ripresenta al giorno d’oggi.
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