A 98 anni, in silenzio, con sobria eleganza, è morto Eugenio Scalfari. La sua vita ha attraversato la storia del Novecento e le sue contraddizioni, sempre un passo di lato rispetto ai grandi eventi, raccontando con un nuovo linguaggio e da un’altra prospettiva un mondo in evoluzione.
Eclettico, narciso, contraddittorio, filosofo, direttore ancor prima che giornalista, Eugenio Scalfari è stato tutto e il suo contrario. Amico e compagno di classe di Italo Calvino, incapace di scegliere tra i due amori della sua vita (Serena Rossetti e Simona De Benedetti), padre atipico ma amato. Politicamente fu fascista, monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista, democristiano: di sé diceva «sono sempre stato in minoranza».
Nato a Civitavecchia nel 1924, iniziò la carriera dopo il liceo, frequentato prima a Roma e poi a Sanremo, scrivendo per Roma fascista, il settimanale dei GUF, da cui si fece presto cacciare per una polemica sulle speculazioni dei gerarchi. Fu sagace, appassionato, vezzoso, elegante, ma soprattutto libero sin dal primo momento. Raccontò che imparò a fare il giornalista riscrivendo i suoi articoli dopo che, puntualmente, il caporedattore gli diceva di non averli capiti. Così formò il suo stile limpido ma diretto. Nel dopoguerra, impiegato alla BNL, inizia la collaborazione con Il Mondo di Pannunzio, per poi fondare insieme ad Arrigo Benedetti l’Espresso e approdare persino a Montecitorio (dal 1968 al 1972), eletto deputato col PSI, dopo aver contribuito, nel 1955, alla fondazione del Partito radicale.
Il vero colpo di genio, però, arrivò nel 1976, quando colse nell’aria la volontà di una nuova sinistra, democratica, lontana dall’URSS, riformista, liberale. Nacque così, con l’aiuto di Caracciolo e Olivetti, il suo figlio prediletto: la Repubblica, il primo vero giornale moderno d’Italia, che sapeva mischiare opportunamente fatti e opinioni senza ipocrisie e che soprattutto sapeva dare uno sguardo più ampio, distaccato e attento ai grandi fenomeni sul mondo, quasi ibridando settimanale e quotidiano. Non era l’Unita, non era Lotta continua, ma non era neanche il Corriere. Durante i tempi duri del sequestro di Aldo Moro e delle inchieste sulla P2, i lettori aumentarono notevolmente, confluendo dagli altri, tanti quotidiani.
Repubblica è indipendente e diceva la sua, prima contro Luigi Calabresi (posizione di cui Scalfari in seguito si pentirà), poi contro Bettino Craxi, iniziando il filone di inchieste che porterà a “Mani pulite”, e infine visceralmente contro Silvio Berlusconi. Il successo è grandissimo e Repubblica diventa il primo quotidiano per diffusione in Italia. Nel 1996, Eugenio Scalfari lascia la direzione di un giornale ormai diventato una grande impresa e il simbolo di un pensiero di sinistra democratico. La sua voce flebile, morbida e stentata, il suo sguardo curioso e furbo, la sua barba erano ormai dei fondamentali del giornalismo.
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Gli ultimi anni li ha dedicati a una vita più intima, quasi imbarazzato da quel ruolo da decano che gli avevano cucito addosso. Si occupava delle grandi domande esistenziali e dei dialoghi con Papa Francesco, che imparò a conoscere assieme alla religiosità e che spesso gli ha concesso delle interviste. Laico, si è dichiarato “non credente nelle religioni” ma credente nell’aldilà. Si chiedeva cosa rimarrà dopo di noi. Di lui ci rimane sicuramente un giornale formidabile, tonnellate di editoriali, polemiche, elzeviri in punta di penna e una rivoluzione nel modo di fare giornalismo.
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In apertura, uno scatto di Francesca Marchi