Il 12 dicembre 2015 è ricorso il quarantesimo anniversario della consegna del premio Nobel per la Letteratura a uno dei più importanti poeti del Novecento: Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981), che con la sua opera si è fatto interprete dell’incapacità conoscitiva dell’uomo moderno.
Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare. […] In ogni modo, io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile. Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce.
(È ancora possibile la poesia?, discorso tenuto da Eugenio Montale alla consegna del premio Nobel, 12 dicembre 1975)
Montale nasce nell’ottobre del 1896 presso una famiglia della media borghesia genovese, ultimo di sei figli. Viene avviato agli studi tecnici, ma già mentre è occupato a conseguire il diploma da ragioniere coltiva la sua passione per la letteratura da autodidatta. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, si lega non più solo agli ambienti intellettuali della sua città natale ma anche a quelli torinesi e fiorentini: collabora con Piero Gobetti e si avvicina al Caffè delle Giubbe Rosse e alla rivista Solaria. Ed è proprio Gobetti che nel 1925 pubblica la sua prima raccolta di poesie, Ossi di Seppia. Quest’opera d’esordio presenta già la metrica falsamente tradizionale e il lessico ricercato e prezioso che stranisce all’improvviso il lettore con termini tecnici o arcaici. Il protagonista è il paesaggio ligure, «scabro ed essenziale», di Monterosso al Mare e delle Cinque Terre dove Eugenio Montale trascorreva le vacanze con la famiglia. Il poeta si sofferma sulle poche cose che lo circondano e tenta di osservarle nelle ore più calde della giornata, nel «meriggiare pallido e assorto» che le fa dissolvere nella luce e le rende vane, rivelando l’incapacità dell’uomo di cogliere l’essenza dello stare al mondo.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
(da Meriggiare pallido e assorto)
Il «male di vivere» è l’espressione che più riesce a condensare la poetica montaliana: la condizione dell’uomo, che non è in grado di cogliere l’ultimo segreto delle cose, è oggettivata in una serie di immagini dalla potente carica espressionistica, che universalizzano il sentire dell’io. Le uniche vie salvifiche sono l’immobilità della statua e il distacco del falco che vola alto, apparizioni epifaniche e simboli della «divina Indifferenza» che donano all’uomo un attimo estatico slegato dai vincoli del Tempo.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Ossi di seppia è una raccolta che si muove tra fallimento e rivelazione: al male di vivere sono contrapposti «l’odore dei limoni», «lo sbaglio di natura», «il punto morto del mondo», «l’anello che non tiene». Questi sono solo alcuni degli emblemi a cui Montale ricorre per rappresentare le brevi epifanie che, in modo del tutto inaspettato, lo investono mentre è assorto nella quotidianità e sembrano avvicinarlo a una qualche verità non ancora rivelata. Ma l’illusione si fa presto vana e il reale dissolve ogni possibilità conoscitiva: «Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase» (da I limoni). Il poeta si trova allora sospeso tra il miraggio e il tedio: il vivere precipita verso il nulla ma la speranza non sa spegnersi, e la si ritrova nella visione del giallo dei limoni dietro un cancello di un palazzo cittadino; così la negatività si impregna inevitabilmente di un’amara e breve positività. E in questa sua condizione di instabilità il poeta non può essere in grado di ricoprire il ruolo di vate, essendo solo in grado, ormai, di dare una definizione del mondo in negativo: «codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (da Non chiederci la parola). Crolla, dunque, la condizione poietès-centrica della poesia stessa: la marginalità dell’io fa spazio alla poesia delle cose e dei simboli.
La seconda raccolta poetica di Eugenio Montale si intitola Le Occasioni ed esce nel 1939, l’anno successivo al suo allontanamento forzato dalla direzione del Gabinetto di Vieusseux per la mancata iscrizione al partito fascista. Le liriche di quest’opera sono inserite in un intreccio più articolato che negli Ossi e il lessico risulta più depurato rispetto alla raccolta d’esordio. Qui gli oggetti non sono più emblemi universalizzanti, ma si sviliscono alla stregua di inutili amuleti: sono le piccole occasioni e le poche situazioni che si fanno largo tra il potere opprimente della realtà a presentarsi come emblemi metafisici delle epifanie di verità. La salvezza, sempre più illusoria e lontana, è rappresentata dall’amore per la donna-angelo Clizia (Irma Brandeis) il cui amore si basa sul culto dell’attesa. L’opposizione Clizia-mondo si intensifica nella raccolta del 1956 La bufera e altro: la donna-angelo scompare nel buio e il mondo è stravolto dalla bufera della seconda guerra mondiale. In questa raccolta la Storia irrompe prepotentemente nella poesia e i ripari che l’uomo può cercare sono minimi, anche se la resistenza al male deve essere perseguita così come l’anguilla cerca «vita là dove solo / morde l’arsura e la desolazione» (da L’anguilla).
La visione del mondo si impregna di un’amara ironia nella raccolta Satura uscita nel 1971, dopo quasi quindici anni di silenzio: il mondo affoga in stillicidi di ipocrisie consumistiche e banalità conformistiche. Satura è una raccolta eterogenea di componimenti in cui Eugenio Montale si fa critico e si tramuta in poeta satirico. Le prime due sezioni, Xenia I e Xenia II (il titolo riprende un epigramma di Marziale, gli xenia erano i doni fatti agli ospiti), assumono, però, un tono crepuscolare e sono dedicate alla moglie Drusilla Tanzi, detta Mosca, morta nel 1963. Le poesie rievocano la sua presenza ora con toni malinconicamente scherzosi, ora con forte drammaticità: il vuoto che Mosca ha lasciato nell’esistenza del poeta è incolmabile e legato a ricordi di una felicità difficile da sostenere.
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
E le tracce dell’assenza della moglie vengono riscontrate nei gesti e nei piccoli dettagli della quotidianità, difficili da ignorare e un gradino diventa burrone, senza le mani di lei intorno al suo braccio: «ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino». (da Ho sceso, dandoti il braccio).
La poesia di Eugenio Montale si fa allora lamento pacato e consapevole dell’ineluttibilità della fine della vita umana.
La morte non ti riguardava.
Anche i tuoi cani erano morti, anche
il medico dei pazzi detto lo zio demente,
anche tua madre e la sua ‘specialità’
di riso e rane, trionfo meneghino;
e anche tuo padre che da una minieffigie
mi sorveglia dal muro sera e mattina.
Malgrado ciò la morte non ti riguardava.Ai funerali dovevo andare io,
nascosto in un tassì restandone lontano
per evitare lacrime e fastidi. E neppure
t’importava la vita e le sue fiere
di vanità e ingordigie e tanto meno le
cancrene universali che trasformano
gli uomini in lupi.Un tabula rasa; se non fosse
che un punto c’era, per me incomprensibile,
e questo punto ti riguardava.
Le altre sezioni di Satura sono un’opera di dissacramento della modernità e dei suoi miti, ne è un esempio il componimento Piove, parodia della Pioggia nel pineto di dannunziana tradizione.
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La «favola bella» è ormai svanita e al suo posto giacciono le cartelle esattoriali, la Gazzetta Ufficiale, i nuovi epistèmi del primate a due piedi.
[…] Piove sui nuovi epistemi
del primate a due piedi,
sull’uomo indiato, sul cielo
ominizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui work in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
Immagine di copertina: it.wikipedia.org
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