Quando cominciai a leggere Hemingway mi trovavo in Liguria, in un piccolo campeggio nei pressi di Levanto. L’afa delle giornate veniva stemperata da qualche nuvola di passaggio, proprio come in questi giorni di giugno, e occasionalmente veniva giù un mezzo acquazzone. La prima volta il mio zaino finì quasi fradicio, ma la mia copia tascabile dei Quarantanove racconti si salvò per miracolo perché la tenevo sempre nel fondo, appena sotto i vestiti puliti.
Queste giornate di pioggia pre-estiva mi fanno pensare ad allora, quando sotto il pergolato verso le sette di sera, con le gocce che tamburellavano frenetiche ma l’orizzonte già squarciava le nuvole e mandava il riverbero del tramonto, m’imbattei in quel racconto della Coupé[1], che parlava delle strade intorno a La Spezia, delle case colorate, dei ritratti di Mussolini dipinti sui muri. Allora, nel bel mezzo del mio viaggio solitario, mi sentii tanto in compagnia, come già altre volte era capitato scorrendo le pagine.
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Ricordo ancora come fosse soltanto ieri, la piacevolezza nel leggere quei racconti d’estate. Se esiste una stagione più adatta a leggere Hemingway, deve essere proprio l’estate: quando la sera troviamo un po’ più di calma per sostare in balcone, o il bel tempo ci porta lontano da casa; perché è in quel vago senso di compagnia che si prova nel leggerli che sta tutta la magia dei libri di Hemingway. Non ci si accosta semplicemente alla storia, ma ci si tuffa dentro a velocità supersonica, insieme alla banda, o ai pugili, o ai gruppi di pescatori. C’è da pulire le pistole, o rattoppare le vele, è l’ora di andare al caffè, che magari Brett[2] è lì ad aspettarci, o di appostarsi sulla strada per contare le auto del comando fascista.
Perché proprio l’estate? Non per berci un Mojito alla sua memoria, che pure va fatto, ma perché i romanzi di Hemingway sono così magnetici da risucchiarci in un vortice, ed è bellissimo avere il tempo di lasciarsi trasportare, se è già notte fonda ostinarsi a non chiudere gli occhi, se è già tardi per andare al mare perdere altri cinque minuti: per niente al mondo abbandonerei Robert Jordan[3], specie adesso che Pablo ha dato di matto; e il Vecchio[4] è finito così a largo che non posso lasciarlo solo.
Nel leggere si ha l’impressione di essere lì, come interlocutore dei solitari, compagno aggiunto dei partigiani, amico di chi fa baldoria, parte di quegli amori impossibili. Queste storie diventano sempre le nostre storie, e ci trasformano in ufficiali in rotta verso il fronte del Piave[5], giornalisti squattrinati che ammazzano le giornate per le vie di Parigi, ragazzi acqua e sapone che pescano trote, e donne, donne bellissime e piene di coraggio, che curano i feriti cui una granata ha spappolato il ginocchio, o fanno le guerrigliere dietro le linee fasciste, nelle montagne vicino Segovia[6]. E ancora ritroviamo noi stessi bambini e bambine, o ragazzi alle prese coi primi amori; scopriamo le nostre passioni sopite, e abbiamo un assaggio di quelle cui non avremmo mai pensato.
Ognuno di noi in queste storie avrà un posto diverso, perciò non esiste recensione migliore che correre a leggerle.
[1] Che ti dice la Patria? In Ernest Hemingway, I quarantanove racconti.
[2] In Fiesta, il sole sorge ancora.
[3] In Per chi suona la campana.
[4] In Il vecchio e il mare.
[5] In Addio alle armi.
[6] Sempre Per chi suona la campana.
Aurelio Lentini
Immagine di copertina: it.wikiquote.org
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[…] Hemingway (Oak Park, 1899 – Ketchum, 1961) venne iniziato fin da piccolo dal padre alla caccia e alla pesca, le primissime esperienze di un rapporto formativo e iniziatico con la natura, che si sarebbe riverberato nei suoi migliori racconti. La sua vita è stata certamente formidabile e sono state proprio le sue “avventure” come la Grande Guerra, i ruggenti anni Venti vissuti a Parigi, la rivoluzione in Spagna, le corride, i safari alla scoperta dell’Africa, a ispirarlo per le sue opere. Subito dopo il diploma venne assunto come cronista dal Kansas City Star, una professione che non avrebbe mai abbandonato e che avrebbe influenzato la sua carriera di scrittore. Sull’onda dell’idealistico entusiasmo dovuto all’entrata in guerra degli Stati Uniti, nel 1917 si arruolò come autista volontario di autoambulanze e venne inviato sul fronte italiano: ferito a Fossalta di Piave, dopo un periodo di cure a Milano ritornò al fronte. L’orrore delle trincee lasciò un segno evidente nello sviluppo della sua personalità e le esperienze di guerra costituirono la base per uno dei suoi romanzi più celebre, Addio alle armi. Composto febbrilmente tra il 1928 e il 1929, l’opera tratta secondo un’articolazione particolare i temi della guerra, dell’amore e della morte: il protagonista, l’americano Frederic Henry, durante il primo conflitto mondiale presta servizio come conducente delle ambulanze e scopre così che il vero volto della guerra è molto meno affascinante di quello che aveva immaginato. La sua vita si intreccia inevitabilmente con quella di un’infermiera scozzese, Catherine Barkley, e da una relazione che sembra dapprima occasionale nasce un rapporto intenso e passionale. Nel frattempo, però, coglie i segni della stanchezza e della sfiducia tra i suoi commilitoni italiani: la guerra va avanti da due anni, innumerevoli soldati sono morti e la vittoria è più che lontana. Pochi mesi dopo, il 24 Ottobre 1917, il fronte italiano crolla a Caporetto e il gruppo di ambulanze di Frederic viene travolto da una massa di soldati che si ritirano caoticamente, tanto che abbandonano le automobili: […]