L’occupazione coloniale delle Americhe da parte degli europei è una delle pagine più drammatiche dell’età moderna. Solitamente associamo l’inizio di questa epopea ai regni di Spagna e di Portogallo, che furono in effetti i primi a stabilirsi nel Nuovo Mondo dopo l’arrivo di Colombo nel 1492. Mentre le due potenze iberiche si spartivano letteralmente il pianeta, con il trattato di Tordesillas del 1494, i re di Francia Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I erano più impegnati a ricercare e consolidare una posizione di egemonia nel Vecchio continente.
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L’avventura francese nelle Americhe ebbe inizio con la spedizione di Giovanni da Verrazzano, esploratore toscano al servizio di re Francesco I. Nel 1523 fu incaricato di cercare un passaggio per l’Oceano Pacifico e l’Asia, e nel marzo 1524 arrivò sulle coste del North Carolina prima di dirigersi a nord, raggiungendo l’attuale provincia canadese della Nuova Scozia prima di tornare in Europa. Il fratello cartografo di Giovanni, Girolamo, riunì queste coste sotto il nome di Gallia Nova. (a questo link una mappa interattiva).
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Negli stessi decenni i pescatori bretoni e normanni avevano iniziato a spingersi fino alle insenature canadesi nelle loro spedizioni, entrando spesso in contatto con le popolazioni indigene. Gli incontri erano talvolta ostili e culminavano in scontri o rapimenti di persone da riportare in Francia per mostrarle come trofei. Ma ben presto si stabilì anche una certa regolarità nei commerci, con gli europei che ottenevano pellicce di castoro in cambio di prodotti come aghi, coltelli e specchi.
Sarebbe passato ancora qualche anno prima della presa di possesso ufficiale di terre americane da parte della corona francese: era il 1534 quando l’esploratore Jacques Cartier piantò una croce di dieci metri nella penisola Gaspé (oggi in Québec), prendendo possesso di quelle terre in nome della corona francese. Cartier era nato nel 1491 a Saint-Malo, in Bretagna, e in gioventù aveva già partecipato ad alcune spedizioni oceaniche, forse anche insieme a Verrazzano.
Nel 1534 Francesco I gli affidò due navi e sessantuno uomini, con il solito obiettivo: trovare un passaggio per l’Asia e, naturalmente, riempire la stiva di ricchezze. Partito in aprile, Cartier attraversò l’Atlantico in venti giorni e riprese l’esplorazione delle coste del Nordamerica là dove si erano interrotte: aggirò quella che oggi si chiama Newfoundland e iniziò a esplorare le coste del grande Golfo di San Lorenzo, in cerca della via per il Pacifico.
Qui rimase a lungo, entrando spesso in contatto con gli indigeni micmac e irochesi (o meglio: Haudenosaunee). L’autorità locale era Donnacona, capo irochese che secondo le fonti ufficiali entrò in buoni rapporti con i francesi, al punto di sancire con loro una sorta di alleanza e addirittura far battezzare tutti gli uomini al suo comando. Ma quando il 24 luglio venne piantata la grande croce che rendeva quei territori una proprietà del regno di Francia, Donnacona capì che c’era qualcosa che non andava, come se avesse avuto un improvviso flash-forward di tutto ciò che il suo e gli altri popoli indigeni avrebbero dovuto soffrire a causa degli europei.
Il capo andò a protestare dall’esploratore, ma nel confronto che seguì pare che Cartier abbia convinto Donnacona a fidarsi di lui e lasciargli in custodia due dei suoi figli, Domagaya e Taignoagy, come interpreti (naturalmente questa è la versione ufficiale, mentre è molto più probabile che li avesse rapiti minacciando Donnacona). Poi i francesi ripartirono portandoseli dietro, diretti in Europa per raccontare a Francesco I quel che avevano visto. Durante il viaggio Cartier coniò anche il nome Canada per riferirsi a quelle terre (quindi solo una parte dell’attuale Québec), fraintendendo la parola irochese kanata, che significa in realtà villaggio.
Sua Maestà doveva essere soddisfatto, perché nel maggio 1535 Jacques Cartier fu incaricato di ripartire verso ovest, stavolta con tre navi e centodieci uomini (oltre ai due figli di Donnacona). Rientrò nel Golfo di San Lorenzo, deciso a esplorare il fiume oggi omonimo, lungo il quale anche gli indigeni gli avevano garantito che avrebbe trovato grandi ricchezze, in particolare nei dintorni di un luogo detto Hochelaga e nel mitico regno di Saguenay. Nel corso del viaggio, Cartier sostò anche nel villaggio di Stadacona, che dopo un iniziale disinteresse francese si sarebbe trasformato in un grande snodo commerciale per le pellicce che provenivano dall’entroterra – oggi quel luogo ha mezzo milione di abitanti e si chiama Québec City.
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Intanto sempre più indigeni iniziavano a vedere con diffidenza i francesi, e pare che Donnacona abbia provato a convincere Cartier a non intraprendere ulteriori spedizioni verso l’entroterra. Forse anche a causa di questi dissapori, non c’erano interpreti indigeni quando nel settembre 1535 l’esploratore si avventurò lungo il fiume San Lorenzo, con una sola delle sue navi. Ai primi di ottobre si imbatté nel villaggio insulare di Hochelaga, che lo impressionò notevolmente: lo descrisse come un grande villaggio circolare, composto da cinquanta lunghe case e circondato da una palizzata, sovrastato da un monte le cui pendici erano fertili e coltivate. Diede a quel monte il nome di Mons Realis o Mont Réal: oggi Montréal è la seconda città più popolosa del Canada.
Al villaggio di Hochelaga è legato un mistero, perché l’archeologia non ha ancora potuto fornire certezze sulla loro posizione nonostante le ricerche nel sottosuolo di Montréal. Inoltre, stando ai resoconti dello stesso Cartier (che tornò qui sei anni dopo) e di altri visitatori successivi, il villaggio venne abbandonato dai suoi abitanti o sparì nel nulla poco dopo quella visita. Ai primi del Seicento Samuel de Champlain avrebbe provato a realizzare una stazione commerciale, presto abbandonata, e solo nel 1642 i francesi avrebbero fondato la colonia stabile.
Mentre gli scavi a Montréal continuano, alimentati di tanto in tanto dalla scoperta di resti o sepolture, le teorie più plausibili sul misterioso spopolamento chiamano in causa il gruppo di Cartier, che potrebbe aver portato qui malattie che indebolirono gli abitanti rendendo il villaggio una facile preda di popoli rivali, una guerra dopo la quale la popolazione fu deportata altrove oppure una migrazione.
Nel 1535 Cartier rimase qui solo un giorno, ne passò ancora qualcuno nei dintorni, e poi ridiscese il fiume fino a Stadacona. Qui gli uomini dell’equipaggio che non l’avevano accompagnato verso ovest avevano eretto un forte, indispettendo ancor di più gli indigeni. Ma non c’era tempo per scontrarsi, perché arrivò l’inverno, che gelò il fiume bloccando le navi fino all’aprile successivo; a dicembre poi lo scorbuto colpì i francesi, uccidendone almeno venticinque. La situazione migliorò dopo che un indigeno confidò loro l’utilità degli infusi di cedro bianco per reintegrare la vitamina C. La quantità di uomini persi costrinse Cartier a ripartire per la Francia la primavera successiva con due sole navi. A bordo con lui c’erano pellicce, oro e dieci irochesi, tra cui quattro bambini e lo stesso Donnacona (che sarebbe morto in Francia nel 1539).
Questa volta Francesco I fu ancora più entusiasta del resoconto e rinnovò l’incarico a Cartier, ma la terza spedizione dovette aspettare qualche anno, a causa della guerra tra la Francia e l’imperatore Carlo V. Dopo che il re ebbe assegnato al nobile Jean-François de La Rocque de Roberval l’incarico di fondare una colonia permanente, Cartier venne mandato in avanscoperta. Nel maggio 1541 poté finalmente riattraversare l’Atlantico, con cinque navi, millecinquecento uomini e una cinquantina di operai e manovali selezionati nelle prigioni francesi.
Nei dintorni del Golfo di San Lorenzo Cartier fece costruire avamposti commerciali e piccoli forti, continuando a rapportarsi con gli indigeni con esiti anche molto differenti. Attese l’arrivo di Roberval per tutto l’inverno successivo, poi decise di ripartire per la Francia senza aspettarlo, con la stiva piena di quelli che gli erano sembrati oro e diamanti, raccolti nei dintorni del golfo. Ma prima di affacciarsi sull’oceano incrociò le navi di Roberval, che gli ordinò di restare con lui; Cartier disobbedì e durante la notte riprese il suo viaggio verso l’Atlantico. Arrivato in Francia, scoprì che i materiali di cui aveva riempito la stiva erano solo minerali luccicanti senza valore.
Non sappiamo se dovette affrontare un processo, ma certamente non ricevette più incarichi da parte della corona. Si ritirò a cinquant’anni nella sua tenuta di Limöelou, in Bretagna. Roberval avrebbe abbandonato l’impresa di una colonia permanente nel giro di un anno, per ritornare in Francia. Re Francesco I morì nel 1547, senza riuscire a veder realizzate le prime città francesi in Canada, arrivate solo agli inizi del Seicento.
L’epopea di Cartier in Canada (qui una mappa interattiva) fu un momento cruciale per la storia francese, ma ancora di più per le popolazioni indigene. Se forse a pelle questo esploratore (nonostante i vari rapimenti) non ci sembra feroce come i corrispettivi conquistadores in Sudamerica è perché i colonizzatori francesi di queste aree ebbero bisogno delle popolazioni indigene per penetrare in un territorio ostile. Inoltre i francesi si erano resi conto che un rapporto positivo o neutrale con i locali era molto più favorevole ai commerci, che erano l’obiettivo principale dello stabilimento delle colonie canadesi, ancora più del possesso di territori.
Ma ha davvero senso fare paragoni tra le potenze coloniali, affermando ad esempio che la Francia in Canada fu meno crudele della Spagna in Sudamerica? Il rischio è sempre quello di decolpevolizzare, di scadere nel “Sì, ma…”, dimenticando che dietro il colonialismo c’è stato (e c’è ancora, perché assistiamo continuamente ad azioni coloniali da parte di Stati che restano impuniti) un intento egoistico e deumanizzante nei confronti delle vittime indigene, private di libertà e di diritti. Ancor di più se consideriamo che, nel corso dei secoli successivi, le autorità europee e la Chiesa Cattolica misero in atto discriminazioni e conversioni forzate in luoghi come le Indian Residential Schools, di cui per fortuna si parla sempre di più.
Soprattutto dagli anni Duemila il Canada ha cominciato un’attività massiccia di informazione e consapevolezza per i cittadini nei confronti del passato, ad esempio con la creazione del National Centre for Truth and Reconciliation o l’istituzione del National Day for Truth and Reconciliation (il 30 settembre di ogni anno). L’idea è mantenere viva la memoria di chi ha subito gli effetti della colonizzazione europea, crescendo generazioni di canadesi sempre più consapevoli e sensibili; e se anche tutto questo non potrà cancellare il passato, forse qualcuno riuscirà a guardare al futuro con qualche speranza in più, nel segno dell’unità e della convivenza.
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