Nel trentaquattresimo anniversario di quel 2 agosto 1980, tragica giornata in cui alle ore 10.25 la sala d’attesa del piazzale Ovest della Stazione di Bologna divenne il teatro di un massacro, la memoria .
Inspiegabile, drammatico, inquietante, eppure è così.
Lo scorso agosto il Corriere di Bologna ha svolto un sondaggio per saggiare quanto viva sia la percezione e la coscienza della strage ed i dati sono sconfortanti: tanti ragazzi non sanno cosa sia accaduto nell’ ’80 («a scuola siamo arrivati alla seconda guerra mondiale»), altri sono convinti sia opera delle Brigate Rosse (pazienza se Mambro e Fioravanti siano stati recentemente condannati a versare più di 2 miliardi allo Stato) e neanche i più cresciuti se la cavano meglio, sbuffando addirittura dinnanzi a quell’orologio fermo “chissà da quanto”.
Che la colpa sia della scuola, costretta a compendiare decenni di storia in nove mesi, o dello Stato, troppo lento e cavilloso nella lotta ai risarcimenti per le famiglie delle vittime, gli anni Settanta restano un periodo oscuro, una sorta di ibrido che non si riesce a descrivere perché troppo recente o che si tende a dimenticare perché troppo lontano. Storicamente racchiuso tra i due grandi estremi del ’68 (inizio della contestazione) e del ’78 (il delitto Moro), questo decennio è spesso indicato con quell’espressione largamente riconosciuta che è “Anni di Piombo“. Derivante dal titolo del film di Margaret von Trotta (che faceva riferimento alla Banda Baader Meinhof), questa categoria, relativa la nostro Paese, è in realtà impropria perché si limita ad alludere alle armi da fuoco prevalentemente usate dal terrorismo di sinistra omettendo, se non censurando, le bombe dei neofascisti come appunto quella di Bologna.<
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La mancanza di un lessico adeguato a riguardo, e di una sintassi in grado di analizzare e collegare tra loro le vicende di quel periodo era stata del resto già sottolineata da Giovanni Moro il quale, nel suo Anni Settanta edito da Einaudi, non manca di ammettere che, su questo punto, come Paese abbiamo fallito.
Nel generale ambito di una mistificazione collettiva o, più propriamente, nella grande equivocità della trasmissione di questo recente passato, s’inserisce a pieno titolo anche la letteratura. Che il grande romanzo del terrorismo manchi in Italia lo si poteva già sottilmente intuire dalle parole di Arbasino il quale, con la solita sprezzante ironia, affermò che «trovare interessante il terrorismo sarebbe come trovare interessante il cancro». Detto da uno scrittore, diciamo che non promette bene.
Eppure già dagli anni Settanta, e dunque in contemporanea con quei tragici eventi, molti dei maggiori autori italiani si sono cimentati nel dar corpo a quello che, ne L’album di famiglia, Gabriele Vitello definisce «immaginario terroristico»; Natalia Ginzburg, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise insistono, conducono la loro indagine narrativa concentrandosi prevalentemente sul terrorismo di destra e accordandosi, in questo, quasi perfettamente con la linea a lungo tenuta dal PCI che definiva le BR «violenti strumentalizzati e provocatori», non comprendendo fino in fondo la portata politica di tale violenza.
In quegli anni confusi e angoscianti, gli intellettuali si sentono chiamati in causa, interpellati sulle degenerazioni avvertono di essere sotto processo e quando nel ’79 viene arrestato Toni Negri, professore di filosofia politica a Padova nonché leader di Potere Operaio, vivono in un clima di sospetto perenne. Li si accusa di aver taciuto dinnanzi alla degenerazione della contestazione studentesca, di non essersi pronunciati sul sequestro Moro, di aver contribuito all’avvento del terrorismo.
È in questo clima che nascono i loro lavori: figli di sentimenti vissuti a caldo, di accuse che pendono sulle loro teste, di voglia di dimostrare la loro estraneità.
I romanzi degli anni Settanta sul terrorismo sono infatti essenzialmente questo, il frutto della difficoltà di capire cosa stesse accadendo, il paradigma di un’angoscia vissuta in prima persona dai loro padri e poi successivamente e vagamente trasmessa ai lettori.
Raffaele Donnarumma ha efficacemente sottolineato come, per un gioco insito nella natura letteraria, la generale tendenza di questi autori sia quella di metaforizzare gli eventi, portando il terrorismo su un terreno altro per renderlo (in maniera opinabile) più comprensibile. L’intenzione primaria della narrativa è, in tal senso, quella di differenziarsi innanzitutto dalla comunicazione di massa, dall’approfondimento o dalla cronaca. Si può, anzi si deve parlare di lotta armata, purché lo si faccia alla maniera letteraria.
Ma è così che nasce il primo, grande limite del romanzo sul terrorismo: si costruisce un mito, bello ed intenso, ma lontano dalla realtà. Quel mito è quello del conflitto generazionale, del confronto-scontro con un padre assente o oppressivo che, neanche troppo velatamente, allude allo Stato.
Prendiamo Caro Michele della Ginzburg: è il 1973, la contestazione è appena uscita dai ranghi e l’autrice dà vita ad un romanzo epistolare e familiare, il cui protagonista è un giovane ribelle avviato al terrorismo. Ad una madre insoddisfatta dalla sua condotta corrisponde un padre fiducioso ma lontano, evanescente. Michele soffre quest’assenza e la sua vicenda diventa sintesi di un disagio acuto che tanto ha di privato, ma poco di realistico in termini storici.
Nei romanzi scritti “a caldo” in questo decennio, la scenografia familiare (quasi sempre borghese) serve agli autori per dare risposte, per cercare di rintracciare le cause ultime del fenomeno, per capire insomma, citando Vitello, «come si diventa terroristi». Non solo Natalia Ginzburg adotta questa chiave interpretativa, ma anche Goffredo Parise con L’odore del sangue e Alberto Moravia ne La vita interiore. Che il terrorista sia figlio della morale e dell’oppressione borghese è convinzione diffusa e viene portata in scena dando vita ad uno schema interpretativo forviante che ha, senza ombra di dubbio, contribuito a generare quella mancanza di precisione nella trasmissione letteraria di questi eventi.
Eppure, col passare degli anni, cambiano gli scrittori ma l’impianto resta il medesimo. Con l’avvento del nuovo millennio assistiamo infatti al dilagare di una vera e propria “moda” del terrorismo, che, escludendo la parentesi noir alla Romanzo Criminale, non manca di dar vita a nuove storie familiari, in cui il padre non è più il punto di partenza ma di arrivo e spesso, proprio perché evanescente, viene sostituito dalla madre o dai fratelli. I nuovi romanzi (pensiamo a Aspettando l’alba di Veltroni o a Il fasciocomunista di Pennacchi) rappresentano la famiglia come un luogo della memoria, in cui occorre fare i conti con un passato difficile che non può essere dimenticato. Spetta allora ai vari membri trasmettere a chi, troppo piccolo per avere ricordi, non ha vissuto sulla propria pelle il dramma di quel tempo.
Questa, se si va a scavare a fondo, è davvero l’unica chiave interpretativa proposta fino ad oggi dalla letteratura. Ma è sufficiente? Oppure rappresenta solo un tentativo, ancora e a distanza di anni, di non guardare in faccia la realtà perché non si è stati in grado di capirla?
Inoltre, un altro aspetto che appare intollerabile è l’assenza quasi totale delle vittime. La “moda” del terrorismo è arrivata a far parlare in prima persona gli ex-terroristi (Cesare Battisti, Patrizio Peci, Adriana Faranda…) per finire addirittura con lo sfumare sul racconto della morte delle loro vittime, mai approfondita ma solo accennata. E, alle voci isolate di Maria Fida Moro e Mario Sossi, solo recentemente si sono aggiunte quelle di Benedetta Tobagi e Giovanni Moro. Questo è sintomo di un disagio latente o, semplicemente, di una mancanza effettiva perché, tanto il giornalismo d’inchiesta quanto la letteratura, si trovano a rappresentare (a volte quasi “eroicamente”) i carnefici, mentre condannano le vittime allo sfondo, incapaci di dar loro quelle risposte che lo stesso Stato non ha saputo fornire.
Se i quotidiani, nei loro approfondimenti culturali, puntualmente si trovano a salutare l’uscita di un nuovo scritto inerente a quel tempo come «il nuovo e definitivo romanzo sugli anni di piombo», bisogna però ammettere che il superamento della rimozione o dell’equivoco collettivo è ancora lontana. Non basta allargare il raggio d’azione o sondare nuovi scenari (si pensi a Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana, vincitore del premio Campiello) per superare quei limiti che, da quarant’anni a questa parte ci portiamo dietro.
La letteratura della lotta armata ci ha fin ora raccontato quello che tanti hanno deciso di immaginare ma, ormai, abbiamo bisogno di risposte.
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