Quando si tentano riflessioni sul cinema di oggi ci si domanda spesso quali debbano essere gli elementi fondanti di una buona pellicola. Che cosa deve raccontare un film affinché venga considerato valido? Spesso è il messaggio che colpisce: si misura la riuscita sui temi che un regista ha saputo trattare, su come li ha sviluppati, meglio se protagonista è l’attualità nelle sue pieghe più complesse. Il cineasta che riesce nel suo intento è colui che parla della sua epoca apportandone una lettura critica innovativa, colui che riesce a dire qualcosa che prima non era stato detto, o, nel caso contrario, meglio se il già detto viene formulato secondo nuove prospettive, attraverso angolazioni inedite che possano aprire a spiragli inaspettati.
La nostra epoca spinge costantemente verso il nuovo: spesso l’innovazione segue originali tecniche di ripresa, usi inaspettati della telecamera. Penso al Dogme 95 di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg: scrivere un manifesto – alla stregua dei surrealisti e futuristi – che detti le nuove regole per il cinema del nuovo millennio. Direte che anche questa è acqua passata, che il Dogme è stato superato, che ora, nel nuovo millennio, ci siamo per davvero.
Dove sta andando il cinema europeo? Viene in mente Paolo Sorrentino, con le sue astrazioni: nato dalla poesia del dettaglio e sconfinato nell’eccesso del dettaglio senza poesia. Oppure ci si figura i nuovi tormentoni: film comici nazional-popolari che cercano, attraverso il riso, di far ritornare la gente al cinema, non importa se armata di pop corn e coca cola formato gigante. Ogni espediente è buono per far cassetta, fidelizzare il cliente come in un grande supermercato di vestiti Made in China: importa comprare, ci si dimentica della qualità.
I puristi diranno che il buon film è engagé, che nell’impegno sociale e politico si ritrova il senso della nostra contemporaneità, i valori che si stanno perdendo. Così, magari, si diventa nostalgici, sapendo che un nuovo Bernardo Bertolucci forse non arriverà e che ci si dovrà accontentare, come insegnava il di lui fratello Attilio, di un’«assenza, più acuta presenza».
Questa riflessione funge da preambolo per parlare di Emmanuel Mouret (Marsiglia 1970). I furbi sosterranno che un buon regista si presenta da solo, che non necessita di cappelli introduttivi che gli salvino la pelle. Ma accogliamo qui la sfida del presentare un cineasta timido, schivo, che ha all’attivo pochi film e che è un po’ lasciato in disparte dalla critica francese. In Italia i film doppiati sono due: Cambio d’indirizzo (Changement d’adresse, 2006) e Solo un bacio, per favore (Un baiser s’il vous plait, 2007). Mouret ha esordito nel 2000 con Laisson Lucie faire! (Lasciamo fare a Lucie!) a cui è seguito Venus et Fleur (Venus e Fleur) nel 2004. Gli ultimi film sono Fais-moi plaisir! (Fammi felice!, 2009), L’Art d’aimer (L’arte di amare, 2011), Une autre vie (Un’altra vita, 2013) e ad aprile 2015 è uscito Caprice (Capriccio).
Peculiarità del suo cinema è la delicatezza. Spesso Mouret recita nelle sue pellicole interpretando un personaggio maldestro, tenero, impacciato e gentile. In un’intervista realizzata da Nicolas Chemin e da Richard Dalla Rosa su Objectif Cinéma in occasione del suo primo film, il cineasta spiega come recitare significhi per lui poggiare sulle corde dell’ironia, prendersi in giro, giocare sui propri difetti. Il personaggio naïf è un pretesto per cercare di leggere il mondo – e qui ritorniamo al nostro preambolo – attraverso le maglie della leggerezza, senza sovrastrutture. È un modo, ci dice Mouret, per «ricevere la realtà, per riscoprirla» andando oltre la postura intellettuale, l’aggressività del critico che legge il mondo apportandone una propria (forzata) interpretazione. Nell’apparente staticità dei suoi personaggi il regista travalica lo snobismo di una certa classe intellettuale.
Nei suoi film si commettono errori per mancanza di lungimiranza e a lungo andare, forse, il mood è sempre quello: conosciamo lo stile, possiamo prevedere che il ringard di turno (lo sfigato, il perdente) a conti fatti avrà la meglio sugli altri. Il suo mondo altro lo protegge dalle insidie del quotidiano, lo cristallizza in un universo parallelo dove gli eventi, prima o poi, gli daranno ragione. Ma questo è solo un espediente, un modo per «filosofare» lasciando cadere il disprezzo, l’atteggiamento trattenuto tipico di coloro che non si fidano del prossimo, che stanno sempre un po’ in disparte.
Qui è la diffidenza ad essere lasciata da parte: si «accoglie il mondo» come si presenta, senza filtri perché solo così, spiega Mouret, è possibile rinnovarsi, impegnarsi nella contestazione, vivendo una personalissima rivoluzione a suon di sorrisi e di inciampi a gamba tesa. Ex allievo della Fémis di Parigi (un’École Supérieure che forma ogni anno un numero ristrettissimo di cineasti, tecnici del suono e dell’immagine) Emmanuel Mouret si è discostato dallo stile dei suoi compagni e da coloro che l’hanno preceduto. Forse il cinema francese digerisce male questo nuovo Monsier Hulot, certamente meno goffo e incisivo del personaggio creato da Jacques Tati, e i critici dalle loro testate gridano al borghese travestito da poeta di togliersi la maschera, accusano il suo cinema di essere un prodotto benpensante confezionato ad arte per i nuovi bobo (la borghesia bohéme) che abitano lussuosi appartamenti del XVI arrondissement, si vestono con giacche di velluto pregiato e fingono interesse sociale passeggiando per i giardini delle Buttes-Chaumont con Libération sotto il braccio. Eppure, dietro la furbizia di certi interni perfetti, alla luce di appartamenti luminosi con molti libri impilati uno sull’altro – l’intelletto c’è, si sente, si deve vedere – Mouret cammina a passi lenti, rivela un lato malinconico che forse svela un altrove segreto, accessibile a pochi. Parlando del nostro oggi, dell’amicizia che spesso è complicata e del fatto che uomini e donne sono inguaribilmente in bilico tra l’attrazione e sentimento, Emmanuel Mouret ci presenta una Francia color confetto, passeggiate nei boschi, salotti caldi dove sorseggiare tè e discutere di Schubert, innamorarsi, bere vino, confondere l’oggi con il domani, vivere l’attimo senza considerarne le conseguenze. Per chi ama ciò che è francese o anche per coloro che hanno solo una vaga idea di quanto sia azzurra Marsiglia e malinconica Parigi, ecco.
Guardate Mouret: non ve ne pentirete.
Il film della settimana
Un baiser s’il vous plait (Solo un bacio, per favore, 2007)
Non esistono baci senza conseguenze.
Ne è convinta Émilie (Julie Gayet) rappresentante di stoffe parigina in trasferta a Nantes per lavoro. Per caso incontra Gabriel (Michaël Cohen), un tipo gentile, discreto e galante. Passano insieme una bella serata, sanno che non si incontreranno mai più e poco prima di salutarsi tentennano dinnanzi alla possibilità di baciarsi, «solo una volta», per chiudere così il ricordo di una breve giornata trascorsa insieme. Invece no. Émilie resiste: tutta colpa di una storia accaduta ad una coppia di amici, Judith (Virginie Ledoyen) e Nicolas (Emmanuel Mouret). Dopo un bacio la loro vita non è più stata la stessa.
Partendo dall’equazione di una famosa teoria amorosa: attrazione (a) + amicizia(A) = amore. Emmanuel Mouret costruisce un film godibile e leggero che strizza l’occhio a François Truffaut e si tinge di toni malinconici nella parte finale.
«Avant qu’un baiser soit donné on ne peut pas savoir s’il sera petit ou grand», non si può conoscere la portata di un bacio prima di averlo dato, altrimenti detto, impossibile governare i propri sentimenti, sondarli nella loro irrequietezza.
Mouret ama intellettualizzare l’amore e l’amicizia, tessendo, con l’ausilio di una scrittura fluida e ironica, un incrocio di storie che si sovrappongono fino a riversarsi l’una nell’altra. Il risultato è dolce-amaro: si potrebbe andare oltre, un nuovo amore potrebbe nascondersi dietro le sembianze di uno sconosciuto senza nome con cui ci si è attardati in una stanza d’hotel dalla tappezzeria pesante. L’essere umano è trattenuto da strane convenzioni che gli imbrigliano il cuore e i muscoli. Forse, basterebbe semplicemente accettare le conseguenze delle proprie azioni e diventare adulti. Ci si riuscirà?
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