«La pazienza è la più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza eroica» scriveva Leopardi nello Zibaldone. Ma quanto di eroico resta alla pazienza — alla lentezza — in un tempo come il nostro, sempre più incline a contrarsi su se stesso sostituendo l’immediatezza alla durata? Se lo chiede Lamberto Maffei nel suo Elogio della lentezza (Il Mulino, 2014), restituendoci una riflessione che pone originalmente in connessione il mondo delle neuroscienze e quello della società contemporanea.
Homo lentus
Viviamo in una società veloce, benché non progettati per la velocità, afferma Maffei. La nostra è una creaturalità votata alla lentezza, e lo conferma la maniera unica e strabiliante in cui nasce, si sviluppa e approssima alla fine la vita del nostro cervello. Se per un ratto il periodo di plasticità cerebrale (quello votato alla formazione delle connessioni tra neuroni, per intenderci) dura la media di 5-6 settimane, per l’uomo si parla addirittura di anni. È con altrettanta lentezza che quello stesso tessuto cerebrale invecchia: la diminuzione delle prestazioni dovute alla dilatazione del tempo di conduzione degli impulsi nervosi e ai ritardi sinaptici di cui diveniamo protagonisti in tarda età avviene difatti con estrema pacatezza; la stessa grazie alla quale riusciamo quasi a dimenticare «di star terminando la nostra passeggiata nel mondo».
Possiamo dunque descrivere il cervello come un efficace ibrido di rapidità e lentezza. Sono veloci quanto ancestrali quei meccanismi che fanno corrispondere ad uno stimolo l’immediatezza di una risposta: ritirare una mano sfiorando una superficie bollente, sentire accelerare il proprio battito cardiaco dinanzi ad una potenziale fonte di pericolo, preparandoci all’azione; tutti automatismi basilari per l’evoluzione della nostra specie. Costitutivamente lenti, al contrario, si rivelano quei meccanismi che non nascono con il genere umano, ma che sorgono proprio dalla sua evoluzione, segnando il passaggio dall’uomo naturale all’uomo culturale. Sono i meccanismi della parola, del linguaggio, del pensiero che albergando nel nostro emisfero sinistro danno vita a quel pensiero logico strutturato temporalmente di cui solo noi esseri umani siamo capaci.
Dove la poesia è un tweet e la pittura una pennellata
Proprio il presupposto di tale unicità ha nutrito e ha continuato a nutrire quella pretesa tutta umana di poter rivendicare una posizione di centralità all’interno del cosmo. Una centralità che si è fatta tracotanza prima, titanismo e obliazione poi: lo slancio prometeico che ha creato la macchina è in fondo lo stesso che ha risolto la dialettica uomo-natura non più in una questione d’appartenenza, ma di opposizione. Un orientamento la cui discutibilità, oramai tradottasi in insostenibilità ecologica, ci conduce certamente verso l’urgenza di un ripensamento sempre più necessario delle sue strutture.
Ciononostante, Maffei nel suo Elogio della lentezza (acquista), invita a tener presente che quel sentimento di eccezionalità che ha trasformato l’uomo in figlio irriverente di una Natura sempre meno madre e sempre più matrigna è lo stesso che consente di tracciare un cordone sanitario ben definito tra l’unicità del pensiero umano e i rischi di una sua contaminazione da parte del digitale. Nell’ambito della dialettica uomo-macchina, parimenti figlia del progresso e dell’apologetica della rapidità, assistiamo difatti ad una eguale fagocitazione del naturale da parte dell’artificiale: ad una naturalità (quella del cervello umano) che resiste a fatica ai colpi sempre più sprezzanti di un competitor artificiale (il computer) che ben si presta nelle sue funzioni al vigente imperativo dell’accelerazione. Una resistenza che trasformandosi in sconfitta, consentirebbe al
successo evolutivo degli uomini rapidi di portare con sé la scomparsa di tutte le azioni considerate inutili come la contemplazione, la poesia, la conversazione per il piacere di parlare, e la comparsa di una nuova arte, quella della rapidità, dove la poesia è un tweet e la pittura una pennellata. Si potrebbe verificare un’atrofia, almeno funzionale, dell’emisfero del tempo, con conseguente probabile ipofunzione del pensiero lento e ipertrofie vicarianti di altre strutture nervose, verosimilmente nell’emisfero destro, atte a rinforzare il pensiero rapido.
Elogio della lentezza e del pensiero irriverente
Lungi dal proporre congetture neurobiologiche fini a se stesse, le considerazioni di Maffei in Elogio della lentezza vogliono suggerirci l’importanza, in un’epoca come questa, di saper tornare alla lentezza. Di saper tornare alla pazienza, alla capacità di saper ancora scorgere nell’imperativo della rapidità una terrificante rinuncia al senso più profondo delle cose, in un’epoca in cui, come sostiene il Baricco de I barbari «la sproporzione tra il livello di profondità da attingere e la quantità di senso raggiungibile è diventata clamorosamente assurda» e in cui, con le parole di Maffei, «la strategia economica né uccide né esilia gli uomini del pensiero irriverente», ma «li isola, li ignora, li degrada economicamente, come si fa con gli insegnanti o con i ricercatori, senza pietà».
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Ritornare alla lentezza significa abbracciare l’onere di un pensiero che sostituisce alla certezza di divenire inutile e biasimevole agli occhi di «quei giganti solo salendo sulle spalle delle quali la vera conoscenza si costruisce», il rischio del biasimo e della vacuità pur di assumersi il coraggio della propria rivoluzione.
Significa tornare ad essere anche «uomini verticali»; uomini che accettano di scavare a mani nude «la superficie petrosa del mondo» rigettando l’idea di un senso localizzato ed immobile, di una temporalità che si crogioli nell’istantaneità incosciente, astorica e acritica dimentica del proprio ieri e noncurante del proprio domani. Significa capire che il prezzo di una rapidità a senso unico non può che essere «la mutilazione della tensione spirituale dell’uomo». E che la soluzione ad uno dei più grandi cortocircuiti della nostra epoca — quello della «bulimia del consumo e dell’anoressia dei valori» — non può che risiedere in quel pensiero irriverente che nel rifiuto della propria mercificazione persiste nella sua critica autenticità creativa.
Lento e irriverente era il pensiero di Socrate, che rifiutava di comunicare la verità ai propri discepoli affinché fossero loro stessi a sforzarsi di trovarla; o quello di Galilei, che mise il Sole al posto della Terra in un mondo di geocentristi. Lento e irriverente è il pensiero di chi lotta per la possibilità dell’altrui pensare. Lento e irriverente è il pensiero di chi non accelera perché sa che quasi sempre ciò che si guadagna in accelerazione si perde in profondità e che arrivare prima a rischio di annientare l’anima delle cose costituirà sempre e comunque un prezzo alto, fin troppo alto da pagare.
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