L’attenzione ben visibile per la “costruzione del testo” propria dello scrittore siracusano, che porta Vittorini a proporre innovazioni continue in relazione alle esperienze maturate in ambito artistico e sociale, la voluta trascuratezza per le regole della tradizione e l’avversione personale per il romanzo lungo, oltre che la tendenza a proiettare senza schermi nell’opera la propria esperienza storica e politica, hanno reso difficile un immediato apprezzamento, giunto solo più tardi, nel secondo dopoguerra, superata la censura fascista che aveva vietato la circolazione del suo capolavoro, Conversazione in Sicilia (1941).
Un grande successo, quello di Vittorini, segnato anche dalla pubblicazione di Uomini e No nel 1945, scritto tra la primavera e l’autunno dell’anno precedente durante un periodo di fuga dalla polizia tedesca dopo l’identificazione a Firenze nel corso uno sciopero generale. Nel 1943 lo scrittore era stato infatti arrestato in una riunione per un’edizione clandestina dell’Unità. Tornato libero, aveva partecipato alla Resistenza a Milano, sua città adottiva dal 1938, e pendeva su di lui l’ordine del Duce di sparargli a vista. È questo il periodo, tra il 1945 e il ’47, della direzione del Politecnico e della militanza difficile nel Partito Comunista di Togliatti.
Uomini e No ha una costruzione precisa: due dimensioni di racconto intrecciate, una storia d’amore tormentosa, e le avventure partigiane decise e violente, contro un nemico che incarna la barbarie più inumana. Amore e dovere.
Enne2 è il nome di battaglia di un partigiano che vive la Resistenza milanese. Siciliano, è stato in prigione e al confino, e da anni trascina la sua “cosa” con Berta, una donna sposata a un altro, più vecchia di lui, che vive fuori città. Compagni di avventura sono altri partigiani che formano un personaggio collettivo unico pur nella varietà dei loro tratti, spinti alla lotta da un’ingenua e popolare speranza di poter cambiare la storia per realizzare ciascuno i propri sogni di vita. Un viscerale bisogno di resistenza: «Perché se non erano terribili uccidevano? Perché se erano semplici, se erano per natura pacifici, lottavano? Perché, senza aver niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte e lo sostenevano?»
Contro di loro il nemico: i fascisti guidati da Cane Nero, prefetto efferato dal nome parlante, metà belva feroce metà incubo notturno di una Milano deserta, sospesa e devastata dalla guerra nel freddo sole invernale, con la nebbia e le luci dei fuochi degli incendi. Elemento distintivo di questo gruppo il servilismo, che ne fa un ritratto degradante di sottomessi ai nazisti, presentati come i veri eroi del male più disumano. La storia degli attentati predisposti dai partigiani ai danni dei nemici, delle rappresaglie, dei giochi politici, della fuga e della vita condivisa tra compagni di lotta si mescola alla storia della relazione di coppia.
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Alter ego l’uno dell’altra, i due protagonisti non riescono a trovare un punto di dialogo per uno sviluppo concreto nella loro relazione: Vittorini sigla questa incomprensibilità attraverso la ripetuta assenza di un’unione fisica tra i due, sempre sul punto di compiersi eppure mai compiuta. Da un lato Berta, apice dell’indecisione e dell’incapacità di prendersi responsabilità e rischi, oscilla costantemente tra la volontà di lasciare il marito e cominciare una nuova vita, e la paura di trovarsi in un amore troppo difficile da gestire che la porta a negarsi fino alla fine. Dall’altro lato Enne2, uomo d’azione lucido e capace diventato però maschio logorato da un amore ossessionante che lo riduce impotente e privo di razionalità anche sul piano politico, tanto da portarlo alla perdita di speranza e quindi all’autodistruzione.
A tenere insieme le fila dei discorsi c’è la voce narrante di Vittorini, che si espone e entra nel mondo finzionale in alcuni capitoli segnalati in corsivo: parla al lettore di sé, della sua creatura Enne2 e del rapporto che lo lega a lui con un’evidente omologia tra la sua biografia e quella del protagonista, riflette in prima persona sugli eventi presentati nella narrazione.
Degni di nota, oltre alla particolare costruzione su doppio livello, alcuni elementi. Le figure femminili che ruotano attorno al personaggio maschile, tre: Berta, Selva e Lorena. Berta, l’amore di una vita, un vestito di donna appeso alla porta della stanza di Enne2, involucro vuoto di una relazione inconsistente. Selva, vecchia dalla saggezza profetica che conosce ciò che muove gli uomini: «Un uomo che lotta perché gli uomini siano felici deve sapere tutto quello che occorre agli uomini per essere felici. E deve avere una compagna. Deve essere felice con la sua compagna». E Lorena, compagna di lotta politica, la donna in carne e ossa, il sesso e l’affetto materno nei momenti di solitudine, senza parole e senza pretese di amore alcuno.
La parola “liberazione”, uno dei valori cardine nel testo, il nodo in cui si fonde il dramma storico e l’angoscia privata. La si trova nella sequenza centrale del racconto, che disegna un gruppo di morti gettati come cenci in Largo Augusto: uomini, vecchi, donne e bambini giustiziati dalle milizie con i berretti «con le teste di morto». Un’immagine dal forte contenuto morale che si riversa sulla coscienza dei singoli personaggi: «“Oh!” il vecchio rispose. “Dobbiamo imparare”. “Imparare che cosa?” disse Berta. “Quello per cui sono morti” il vecchio disse. “La liberazione” rispose Berta. Il vecchio sembrava cercare la risposta migliore, guardava davanti a sé con occhi lieti. “Di ognuno di noi”».
Liberazione storica e sociale ma anche interiore, dai drammi personali, come evidenzia il tormento della figura femminile in bilico tra visione e realtà.
Poi un episodio, una storia nella storia a cui Vittorini sceglie di dare risalto: un caso limite di disumanità, la scena cruda della macabra uccisione di un poveraccio, reo di aver ferito uno dei cani delle SS. È qui che tocca l’apice il tema che dà il titolo al romanzo: cosa è umano, cosa no? I cani e gli uomini, chi dei due è la vera belva? E soprattutto, non è forse vero che il disumano esiste perché esiste l’umano? Non è forse vero che nessuno, per quanto scelga di stare dalla parte dei buoni, può dirsi esente dalla disumanità? «Vorrei vederlo fuori dall’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare?».
Infine un colore: l’azzurro. L’unico colore sugli sfondi grigi e pallidi dell’ambientazione. Come un filo che appare di tanto in tanto agli occhi del lettore attento: azzurri sono gli occhi del padre di Enne2, quelli di Selva, quelli del vecchio saggio che Berta incontra nel Parco, azzurro è il colore con cui Enne2 identifica Berta, azzurre le pantofole del poveraccio ucciso e le tute dei prigionieri che questo incontra nel carcere prima di morire, azzurro il brandello di cielo nelle ultime pagine del romanzo. «Guardò il vecchio e vide che i suoi occhi erano azzurri, glieli vide sereni nella vecchia faccia. Aveva un significato che i suoi occhi fossero azzurri? Era come se avesse un significato».
La chiusura del testo è piuttosto definitiva: pubblico e privato non coincidono, non si chiarificano. Ci si può battere per un nobile ideale di libertà collettiva e restare personalmente prigionieri di una infelicità logorante. Uomini e No di Vittorini contraddice così quella fiducia, tipica del dopoguerra, nell’illusione che il progresso politico-sociale possa risolvere anche le contraddizioni del rapporto fra l’io e gli altri. E nel ribadire l’obbligo politico e morale di elevarsi contro il non umano, si chiede se forse umano e disumano non siano in realtà inevitabilmente legati.
Immagine di copertina: commons.wikimedia.org
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