Volendo leggere i risultati delle elezioni americane bisogna partire da alcuni principali aspetti che hanno influenzato la campagna elettorale e che successivamente hanno avuto specifici riscontri in sede elettorale. C’è senza dubbio un aspetto numerico legato ai voti espressi dai cittadini americani, uno meno razionale legato alla percezione e alle cascate informative e un ultimo aspetto che si lega ai meriti e ai demeriti che hanno portato al risultato della vittoria di Donald Trump, concretizzatosi con le elezioni tenutesi lo scorso 5 novembre.
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Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali battendo la candidata democratica Kamala Harris sia sul numero di collegi vinti che per numero di voti ottenuti. Donald Trump è stato quindi eletto come 47° presidente degli Stati Uniti, tornando alla Casa Bianca dopo la sua prima elezione del 2016 in cui il tycoon si impose su Hilary Clinton (solo sul conteggio dei collegi e non sul numero effettivo dei voti ottenuti) e dopo la sua sconfitta nel 2020 in cui vinse il candidato democratico, ora Presidente uscente, Joe Biden.
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Come più volte abbiamo ricordato nell’analisi dello scenario politico americano, Il sistema elettorale degli Stati Uniti si basa su un processo indiretto di elezione di Presidente e Vicepresidente, che avviene attraverso il cosiddetto Collegio Elettorale. Tale sistema presenta diverse fasi. La prima in ordine temporale si lega alle Elezioni primarie e ai Caucus, condotti dai singoli partiti per selezionare i propri candidati che possono essere riservati ai soli registrati al voto (primarie chiuse) o aperte alla partecipazione dell’intero elettorato (primarie aperte).
Successivamente, i delegati scelti dai singoli territori si riuniscono nelle Convention nazionali dei Partiti per nominare ufficialmente il candidato o la candidata Presidente e il running mate che assumerà la carica di Vicepresidente. Infine, il martedì successivo al primo lunedì di novembre si tengono le elezioni generali nel corso delle quali il corpo elettorale vota per una lista di grandi elettori associati alle figure candidate a coprire la carica di Presidente e Vicepresidente. Quest’ultima fase è l’atto conclusivo di un percorso elettivo più lungo che può comprendere forme di voto anticipato, sia in via postale che attraverso l’istituzione di seggi (secondo quanto stabilito dal singolo Stato).
Per ogni Stato, i grandi elettori vengono ottenuti da uno dei candidati secondo la logica del Winner takes all, regola secondo cui il presidente più votato prende i voti della totalità dei grandi elettori legati al singolo territorio. Tale sistema può dar vita a risultati per cui il candidato eletto alla carica di presidente non è il candidato più votato dall’elettorato statunitense (es. il caso di Donald Trump nel 2016).
Tra dati e percezione
Alle recenti elezioni presidenziali, Donald Trump ha ottenuto la maggioranza dei 538 voti del Collegio Elettorale, superando la soglia dei 270 voti necessari per la vittoria. Più nel dettaglio, il candidato repubblicano ha ottenuto 312 grandi elettori, contro i 226 della contendente Kamala Harris, sebbene il primo abbia ottenuto 75.112.005 voti (50,3%) e la candidata democratica 71.816.262 voti (48,1%). Confrontando tali dati con quelli delle elezioni presidenziali del 2020, è opportuno evidenziare che allora il candidato Democratico Joe Biden, risultato vincitore, ottenne 81.283.501, pari al 51,31% dei voti espressi, mentre Donald Trump ne ottenne 74.223.975 (46,85%).
Analizzando i voti delle due tornate elettorali ottenuti dal Presidente, che entrerà in carica a gennaio 2025, al netto degli spostamenti dell’elettorato che negli Stati Uniti viene impattato fortemente da una clusterizzazione etnica e legata alla scolarizzazione degli elettori, è evidente che l’elettorato sia cresciuto di poco meno di un milione di elettori, dato che negli Stati Uniti può considerarsi come voto stabile.
Questa affermazione può essere vista come semplicistica, ma in politica contano anche i numeri, quindi non è una vittoria schiacciante, ma una vittoria che si concretizza grazie a fattori esogeni. Per tale ragione è opportuno volgere lo sguardo verso i dati dei candidati democratici, visto che dei voti ottenuti da Joe Biden nel 2020 a Kamala Harris sono mancati poco meno di 10 milioni di voti.
Negli ultimi giorni sono proliferate analisi sul voto e sui movimenti dell’elettorato. Sicuramente, la candidatura tardiva di Kamala Harris ha contribuito a ridurne la forza propulsiva frutto di due anni di campagna elettorale (tempi canonici delle campagne presidenziali negli Stati Uniti per far fronte a tutte le fasi del sistema elettorale), ma allo stesso tempo è mancato qualcosa dal punto di vista della strategia elettorale. Non vogliamo fare come i tanti analisti che dopo la sconfitta di Harris hanno identificato tutti i limiti della sua candidatura ponendo al centro temi come genere, colore della pelle, temi trattati e addirittura le competenze della stessa candidata.
Kamala Harris era una buona candidata che ha sofferto di un limite che vive tutto il mondo progressista nel mondo occidentale. La democrazia e il socialismo (sebbene negli Stati Uniti sia davvero molto moderato) non stanno bene perché nel tempo hanno perso il loro legame con i temi che toccano i bisogni delle persone.
Da qui il tema della percezione e delle cascate informative che si verificano in caso di ignoranza o di incertezza su un certo tema e sul successivo basarsi sulle opinioni di chi si ha vicino (famiglia, amici, ecc.) o di chi ci si fida. In poche parole, ci si basa sul sentito dire. Non è un caso che tra i temi di politica interna che hanno portato alla vittoria di Donald Trump vi siano l’economia e l’inflazione. Guardando i dati, gli Stati Uniti vivono un periodo di crescita e di stabilità economica con bassa disoccupazione e l’inflazione, che è calata dopo il picco del 2022 toccato a causa del contesto globale post Covid e dei conflitti in Europa.
Le persone però questa stabilità e questa situazione di relativa calma economica non l’hanno percepita, vedendo la crisi e l’inflazione come principali preoccupazioni. Quindi non c’è da stupirsi se Donald Trump, con tale leva, abbia fatto aumentare i propri consensi tra gruppi demografici tradizionalmente democratici come neri e latini e consolidato il proprio consenso tra le classi medie e popolari.
Cosa succede adesso?
Le implicazioni di questa vittoria saranno significative sia per la politica interna che estera degli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. Senza dubbio, la forte polarizzazione e il confronto tra due visioni totalmente diverse del futuro degli Stati Uniti ha mobilitato l’elettorato, sebbene i limiti dell’Amministrazione Biden e il posizionamento su temi rilevanti per l’elettorato democratico, come la questione palestinese e il ruolo degli USA nel mondo, abbiano influito negativamente sul voto a Kamala Harris.
È opportuno sottolineare che, se nel 2016 il voto a Donald Trump è stato legato a un voto di protesta anti–establishment, questa volta non si può dire lo stesso. Chi ha votato Donald Trump lo ha votato per le sue proposte di isolazionismo e nuovo protagonismo degli Stati Uniti, per la sua visione delle problematiche migratorie (e successive proposte di rimpatrio/deportazione) e per le proposte di progressivo disimpegno dallo scenario internazionale. Inoltre, altra questione che senza dubbio ha avuto un peso è quello del taglio delle tasse, tanto sbandierato dai sostenitori trumpiani, secondo il classico adagio della sinistra che aumenta le tasse e la destra che le abbassa (vi ricorda qualcosa?). Sappiamo che, come altre volte, il taglio fiscale avverrà sui redditi più alti, ma la concretizzazione di questa previsione darà risposte all’elettorato statunitense.
Parlare di elezioni americane, ci impone delle riflessioni più ampie che avranno ricadute sull’intero occidente. Senza voler prevedere uno scenario catastrofico, l’elezione di Donald Trump porterà a politiche in linea con quanto promesso e impone un cambio di passo principalmente all’Europa che dovrà rispondere ai dazi che verranno imposti dagli Stati Uniti e far fronte agli scenari belligeranti in Ucraina e in Palestina, dove la posizione statunitense varierà. Quindi andrà bene l’atlantismo, ma non un appiattimento sulle posizioni americane. In più, tale risultato impone una seria riflessione al mondo progressista che soffre dei medesimi problemi sofferti dai democratici americani. Vanno bene i simboli e i concetti alti della politica, ma bisogna occuparsi delle persone, dei loro bisogni economici, sociali e civili, ma anche della loro capacità di discernere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Scomodando Socrate, «Il sapere rende liberi, è l’ignoranza che rende prigionieri».
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