Se fossero state in un altro momento, le elezioni presidenziali in Turchia avrebbero attirato molta più attenzione di quanto non stia succedendo ora. È normale invece, in un contesto come quello di oggi, che le prime vere elezioni in cui il presidente turco Erdogan rischia di perdere il potere dopo circa venti anni tra premierato e presidenza assorbano solo una piccola parte del dibattito intorno a ciò che accade nel mondo. La guerra in Ucraina, il recente G7 giapponese, i moti in Israele e la difficile fase che alcune delle più avanzate economie occidentali stanno vivendo sono tutti eventi che legittimamente hanno catturato e catturano l’attenzione di milioni di persone, a volte anche direttamente toccate da ciò che accade oltre i nostri confini. Se poi aggiungiamo il fatto che probabilmente molti hanno dato per scontato il fatto che le elezioni in un paese come la Turchia, ormai considerata un’autocrazia a tutti gli effetti, non potessero riservare particolari sorprese, allora è facile capire perché il primo turno elettorale sia stato seguito solo distrattamente nella maggior parte dei casi.
In realtà, il fatto che il paese sia lentamente scivolato verso l’essere una vera e propria autocrazia elettorale, soprattutto dopo il fallito ed ambiguo golpe del 2016, non ha impedito all’opposizione di ottenere un risultato importante e per nulla scontato. Il presidente non è riuscito a vincere nuovamente al primo turno in una giornata comunque storica per il paese. Si sono recati infatti alle urne decine di milioni di turchi, il 90% circa degli aventi diritto hanno espresso la loro preferenza in un voto che ha assunto per certi versi il carattere di un referendum personale sulla persona di Erdogan e sulla politica interna del paese. Il presidente in carica, nonostante fino a poche settimane prima del voto fosse dato in grande svantaggio rispetto ad un’opposizione variegata ma per una volta unita, ha prevedibilmente sfruttato il controllo di cui gode dei media, degli apparati e della propaganda ed ha recuperato tutto il terreno perso rispetto allo sfidante Kilicdaroglu, ma non abbastanza per assicurarsi la vittoria definitiva. Erdogan ha infatti ottenuto il 49,4% delle preferenze, mentre il principale candidato dei partiti di opposizione Kemal Kilicdaroglu si è fermato al 44,96% . Sinan Ogan, l’altro candidato conservatore ha invece ottenuto il 5,2% e Muharrem Ince lo 0,44% dei consensi. Tutto è rimandato a domenica 28 maggio, quando i primi due si sfideranno al ballottaggio.
Un fronte ampio
Ma chi è Kemal Kilicdaroglu e soprattutto, che idea di Turchia ha in mente? È un uomo di settantaquattro anni, che si muove con esperienza e capacità nell’agone politico turco. Nato in Anatolia e di fede musulmana, ha una formazione economica e fino al 1999 ha servito come alto funzionario nell’amministrazione pubblica. Solo successivamente, nei primissimi anni 2000 è entrato in politica e da tredici guida il principale partito di opposizione, il CHP. Si tratta del partito erede di quello fondato esattamente un secolo fa da Kemal Ataturk, di ispirazione fortemente nazionalista ma laico. Negli ultimi anni Kilicdaroglu ha provato a far coesistere l’ala nazionalista, che comunque rimane un bacino indispensabile di consenso, con una svolta socialdemocratica che gli ha permesso di allargare la coalizione che ora lo ha scelto per sfidare il presidente in carica. È un uomo equilibrato e pacato, incapace di infiammare i comizi ma che evidentemente è stato in grado di ispirare fiducia in oltre venticinque milioni persone che si sono recate alle urne per sostenerlo. È stato capace di costruire una coalizione ampia, anche se a volte fragile nella sua diversità, che abbraccia ben sei partiti, tra i quali quello curdo. Da anni si batte contro la deriva autoritaria in corso nel paese e lotta per una giustizia ed un’informazione indipendenti. Un ruolo ingrato ma indispensabile in un paese che non sempre apprezza e sostiene queste battaglie. In occidente attirò l’attenzione per la prima volta quando nel 2017 si mise alla testa della marcia della giustizia, una manifestazione politica da lui ideata per protestare contro gli arresti e le purghe di migliaia di dissidenti all’indomani del tentato golpe del luglio 2016. Molti di loro non avevano nessun legame con i golpisti, ma erano semplicemente critici nei confronti del governo.
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Due idee di Turchia, dentro e fuori
Sul piano politico la campagna elettorale è stata aspra, ma per comprendere le differenze tra i due candidati è necessario guardare alla politica estera ed a quella interna in modo distinto, perché non sempre i programmi di Erdogan e dello sfidante sono così diversi come si potrebbe immaginare. Sul piano della politica interna le differenze tra i due sono senza dubbio marcate, e non potrebbe essere altrimenti. In campagna elettorale Kemal Kilicdaroglu ha attaccato con forza le scelte di politica economica del presidente, accusandolo di essere il responsabile dei tassi di inflazione a tre cifre che hanno distrutto il potere d’acquisto non solo delle classi medie e basse e nel preparare il programma elettorale si è avvalso anche della consulenza di stimati accademici turchi come Daron Acemoglu, professore al MIT ed autore del best seller Why nations fail. Accanto a ciò, anche le diverse leggi che hanno imbavagliato e limitato le possibilità di critica (l’ultima è dell’ottobre 2022) sono state oggetto di un aspro dibattitto, così come l’indipendenza della magistratura e la postura nei confronti delle minoranze. Erdogan ha sempre raccolto una parte considerevole del consenso di cui ancora gode nelle zone più periferiche e conservatrici del paese, in Anatolia e fuori dalle grandi metropoli dove però queste istanze fanno fatica a divenire tema di reale dibattitto e quindi a spostare voti.
Dal punto di vista della politica estera invece le differenze tra i due sfidanti sono molto più sfumate, ed a volte nemmeno esistono. Spesso queste si riducono ai toni con cui i due affermano sostanzialmente gli stessi concetti. Un primo tema è relativo all’ingresso della Turchia nell’UE: alcuni hanno scambiato gli appelli di Kemal Kilicdaroglu alla democrazia ed allo stato di diritto come un impegno a riprendere un processo di adesione ormai fermo e di fatto finito nel dimenticatoio sia a Brussels che ad Ankara. Non è così. In campagna elettorale il candidato dell’opposizione ha più volte ribadito la posizione indipendente che il paese si è faticosamente costruito nell’ultimo decennio, pur facendo parte della NATO. L’adesione all’UE non è nell’agenda del segretario del CHP e tanto meno in quella del presidente. Ulteriore prova di ciò sono state le dichiarazioni pacate ma dure nei confronti della Grecia riguardo le annose dispute territoriali che dividono i due paesi affacciati sull’Egeo. Anche sulla presenza in Libia non sarebbe lecito aspettarsi che un’eventuale vittoria al ballottaggio dello sfidante, comunque improbabile in quanto a fare da ago della bilancia dovrebbe essere l’ultra conservatore Ogan, porti a particolari cambi di rotta così come nel caso dell’area dell’Asia centrale, dove Ankara sta aumentando il suo peso specifico approfittando del fatto che la Russia sia evidentemente impegnata altrove. La Turchia è tornata a contare sulla scena internazionale grazie ad un lavoro costante e non sempre semplice che Erdogan ha portato avanti negli ultimi quindici anni. Un lavoro che ora le permette di vendere droni all’Ucraina e nello stesso tempo fare da ponte alle triangolazioni commerciali e finanziarie con cui Mosca bypassa le sanzioni occidentali. Un lavoro per cui ora è difficile pensare ad una soluzione del conflitto tra Armenia ed Azerbaigian che non preveda una contropartita per Ankara così come nella partita che ancora si sta giocando in Libia.
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È di pochi giorni fa proprio una dichiarazione di Kemal Kilicdaroglu che affermava di voler di fatto deportare milioni di rifugiati siriani di nuovo nel paese d’origine, rifugiati che erano stati accolti durante la guerra civile e che ora rischierebbero in molti casi di andare incontro alle ritorsioni di un regime che è ancora saldo al potere dopo oltre dieci anni e che non esiterebbe certo a punire chi scappò dal paese perché in opposizione al regime di Assad.
I due candidati insomma, per quanto abbiano due visioni spesso contrapposte del paese, concordano su di una cosa. Il capitale costruito nell’ultimo decennio non deve essere sprecato, ed il fatto che comunque il CHP incarni anche istanze nazionaliste storicamente care al partito dimostra che il fatto che la Turchia sia tornata ad avere un peso notevole sullo scenario internazionale sia un fatto apprezzato in modo trasversale. La partita si gioca sul piano interno, dove invece le differenze tra AKP ed opposizione sono marcate e sistemiche. Il sultano resta il favorito, ma questa volta la sfida è molto più vera di quanto non si aspettassero in molti. Lui per primo.
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