Parlare di Edward Said è parlare di Orientalismo. La più grande e (in)discussa opera degli studi post coloniali porta la firma di un arabo palestinese di religione cristiana, cresciuto al Cairo tra il re di Giordania Hussein e l’indimenticato attore Omar Sharif. È suo il più grande atto d’accusa alla rappresentazione europea dell’ “Oriente”, dove il virgolettato non è vezzo di forma ma aggiunta necessaria. Perché quello che Said nota è l’assurdo carattere di parzialità che le potenze del Vecchio Continente mettono in atto nel loro approccio al mondo “altro”, un atteggiamento mistificatorio dietro cui costruire la propria identità di Occidente dominante.
Il saggio del 1978 costò allo studioso non poche critiche, basate soprattutto sulla ristrettezza di fonti utilizzate, relative quasi esclusivamente alle grandi potenze tedesche, inglesi e francesi. Tuttavia resta innegabile l’assoluta fondatezza delle sue tesi, nonché l’assurdo ed evidente apparato stereotipato in cui gli studiosi europei hanno ingabbiato l’Oriente e la sua cultura. Tipico delle teorie cosiddette orientaliste è infatti la tendenza a considerare grandi complessi culturali come quello asiatico un minestrone immutabile di spiritualismo e irrazionalismo, fanatismo e dispotismo, con tutti i popoli asiatici impossibilitati per natura a costruire una democrazia degna di questo nome. È così che per Said l’orientalismo diventa «il sistema del sapere europeo o occidentale sull’Oriente» che altro non è che «sinonimo di dominio europeo sull’Oriente».
Secondo un concetto mutuato da Denys Hay, Edward Said collega l’assunto di base del suo studio a quella “idea di Europa” rappresentante una nozione collettiva attraverso cui gli europei costruiscono e identificano un “noi” contrapposto agli “altri”, intesi come uomini e donne di altre origini e culture. Del resto la principale componente dell’identità europea altro non è che l’idea di una supposta superiorità rispetto ad altri popoli che ha finito per renderla egemone agli occhi del mondo, servendosi di un misconoscimento gratuito e generale volto unicamente a fortificare i propri interessi di superpotenza.
L’esempio più eclatante di tale rappresentazione forzata e impropria è l’immagine che l’Europa ha fornito dell’Islam nel corso dei secoli, sfruttando la progressiva forza militare, culturale e spirituale di esso come mezzo per demonizzare un mondo altro, «simbolo del terrore, della devastazione, dell’invasione da parte di un nemico barbaro e crudele, con cui non si può venire a patti». Se per l’Occidente, tuttora, l’Islam rappresenta la quintessenza del vicino minaccioso, questo è perché «per l’Europa ha rappresentato un trauma duraturo», fatto di lotte sui campi di battaglia e della mente, abilmente vinte dal buon uomo bianco a suon di colonizzazioni e rappresentazioni di comodo, non così dissimili dall’abile capacità degli statunitensi di dipingere per anni i nativi d’America come vandali incivili pronti a tutto pur di salvare una terra che – guarda caso – era loro.
La tesi di fondo di Said è allora la condivisibilissima idea che «l’orientalismo sia fondamentalmente una dottrina politica, imposta all’Oriente a causa della minor forza di quest’ultimo, e che dell’Oriente ha cancellato ciò che era irriducibile a quella minor forza». Lo scopo furbo ma vile della Madre Europa era – ed è – caratterizzare l’Oriente come estraneo e, al contempo, rendere applicabili queste nozioni a schemi ben collaudati, così da essere facilmente riconoscibili e manipolabili. Coppie di contrasti, corrispettivi occidentali per ogni realtà “altra” presentata. La diffusa tendenza orientalista a classificare nasconde, inoltre, un più subdolo tentativo di omologazione, con i caratteri considerati devianti ricondotti all’interno di modelli codificati mediante concetti universali di tipo genetico e ben riassumibili nei discussi contenitori di caratteristiche fisiche e morali ripartite tra tipi (l’africano fiacco, l’asiatico giallo eccetera). Una tendenza giudicata da Said paranoica, una manovra ben architettata e spietata per rendere il mondo di Ovest, ancora oggi, arbitrariamente superiore a quello di Est.
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