«La macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente come vedere il mondo senza di essa».
La fotografia è uno dei massimi strumenti testimoniali: cattura un’immagine, la rende eterna e la universalizza. A questo scopo ha dedicato la sua vita la fotografa documentaria statunitense Dorothea Lange.
Dorothea Lange (Hoboken, 26 maggio 1895 – San Francisco, 11 ottobre 1965) nasce nel New Jersey da una famiglia di migranti tedeschi. Da bambina si ammala di polmonite, malattia che la segna tanto da lasciarle la gamba destra atrofizzata: questa disabilità non le sarà mai di impedimento nella realizzazione dei suoi sogni, infatti nel 1917 si trasferisce a New York per dedicarsi alla formazione fotografica nello studio di Clarence H. White, lo stesso da cui era uscita la celebre Margaret Bourke-White. Lascerà la Grande Mela due anni più tardi, nel 1919, per stabilirsi a San Francisco, dove inizia la sua carriera da ritrattista. Dieci anni più tardi, gli Stati Uniti assistono allo storico crollo di Wall Street e il paese deve affrontare la miseria della Grande Depressione. La Lange decide quindi di lasciare il chiuso del suo studio e scendere in strada per documentare le difficili condizioni di vita della popolazione; con questo scopo nel 1935 accetta dal Governo un incarico nell’ambito del Farm Security Administration (FSA), un’ente di previdenza sociale costituitosi per aiutare le famiglie dei coltivatori disoccupati. In questi anni si impegna, quindi, a ritrarre i volti dell’indigenza: migranti, braccianti, padri di famiglia, bambini e madri coraggiose.
Nipomo, California, 1936. Questa fotografia intitolata Migrant Mother (madre migrante) è divenuta in poco tempo manifesto dell’opera testimoniale della Lange. È il ritratto di una giovane vedova col volto rabbuiato e scavato dalla preoccupazione; a lei si stringono i suoi due figli. Lo scatto è divenuto icona della sofferenza di una nazione e ha scosso le coscienze di molti. L’identità della donna è stata ignota fino a quando, nel 1978, la protagonista, Florence Thompson, non è uscita allo scoperto dichiarando di sentirsi sfruttata. Il ritratto, essendo proprietà del governo, in realtà non ha fruttato alcun guadagno alla Lange ma, in compenso, le ha garantito perpetua fama mondiale. Nel 1998 una copia della Migrant Mother autografata è stata venduta da Sotheby’s per 244.500 dollari.
Yakima Valley, Washington, 1939. In un campo profughi una bambina dallo sguardo basso è sorvegliata dalla madre poco lontano.
California, 1938. L’ossimoro tra la pubblicità che invita a un confortevole viaggio in treno e la condizione di disagio delle famiglie accampate sulla Route 99 è accentuato dalla divisione della fotografia in due sezioni: la parte superiore relativa all’agognato benessere e la parte inferiore relativa alla dura realtà.
California, 1937. Il contrasto tra aspettative e realtà dello scatto precedente è ripreso in quest’immagine che ritrae due migranti in cammino alla volta di Los Angeles.
Intanto, nel 1942, in seguito all’attacco a Pearl Harbour, il Governo degli Stati Uniti decise di rinchiudere in campi di concentramento situati nell’Est del paese, gli americani di origine giapponese. La Lange documentò attentamente quest’ingiusta operazione che privava migliaia di innocenti della loro libertà.
San Francisco, 1942. In una scuola pubblica un gruppo di bambine canta l’inno statunitense davanti alla bandiera, ignare che molte di loro dovranno subire l’umiliazione della deportazione che le obbligherà a lasciare le loro case e i loro compagni di giochi.
Hayward, California, 1942. Una famiglia giapponese attende composta l’autobus che li porterà lontani dalle loro case, subendo con dignità un provvedimento del tutto ingiusto.
California, 1942. In un campo di concentramento sventola la bandiera americana. Due figure in lontananza, forse due bambini, corrono noncuranti dell’aria cupa che attanaglia l’area.
Dorothea Lange fonda, nel 1952, insieme ad altri prestigiosi fotografi la rivista Aperture, dopo aver contribuito, nel 1947, alla nascita dell’agenzia Magnum. Collabora poi con Fortune e Life. Dopo anni di attività nel mondo della fotografia si spegne nel 1965 in seguito ad un cancro all’esofago. Grazie alla sua preziosissima e instancabile opera documentaria, che ha ritratto le più varie sofferenze della popolazione degli Stati Uniti d’America, ha ricevuto diversi riconoscimenti tra cui l’inclusione nella Hall of Fame del California Museum For History, Women & Arts (Museo di Storia, Donne e Arti della California).