L’opera prima di Annarita Zambrano, regista italiana residente in Francia, diventa l’opportunità di una collaborazione Europea già presentata ed apprezzata a Cannes 2017. Un’unione internazionale di maestranze artistiche dal risultato non sempre eccelso, ma che per il tema trattato, la recitazione e la produzione sembra rientrare in un panorama di collaborazioni da sostenere e seguire per scoprire nuovi lati di una narrazione dalle molteplici prospettive.
Nella cornice del terrorismo
Bologna, 2002. Il pacato silenzio dei titoli di testa lascia spazio al frastuono degli studenti bolognesi in rivolta. Esattamente come vent’anni prima, in uno dei periodi più bui della Repubblica italiana, quel discutibile grido di giustizia si tramuta velocemente nei rigoli di sangue sulla camicia di un professore assassinato. Un attacco terroristico che riattualizza battaglie solo apparentemente superate, ma che questa storia, in una scelta narrativa ben precisa, tratterà come semplice espediente per indagare ulteriormente le ferite mai cicatrizzate di un passato obliato dal tempo e dalla società.
L’esecutore di quest’inizio ad effetto non è dunque di interesse per la pellicola, la quale si sposta subito in Francia, da Marco (Giuseppe Battiston), ex-militante di estrema sinistra già condannato all’ergastolo, accusato ora di essere il mandante di questo ritorno di violenza. Da qui l’inizio di una fuga al rallentatore, in cui l’ovvia ansia per la cattura lascia invece spazio a lente riflessioni senza risposta, composte prima nei silenzi di un Marco in equilibrio tra la figura d’intellettuale pentito e quella di veterano col sangue ancora avvelenato, e poi alla rabbia della sorella che da Bologna lotta contro il dolore di un passato mai giunto al proprio termine ed ora finalmente riemerso. Due realtà lontane e parallele, sostenute dalle interpretazioni credibili seppur non costanti di Battiston e Bobuľová, nelle cui storie s’inserirà quello che è l’imprevisto più interessante della pellicola: la famiglia.
Perché sì, al di là della società, del terrorismo, del riscatto e del dolore, è la figlia di Marco, Viola (Charlotte Cétaire), ad indirizzare una storia che si fa lento e introspettivo on the road sul rapporto complesso tra padre e figlia, tra colpevoli e vittime.
Un film «troppo italiano»?
È con orgoglio che Marzarotto, produttore Italiano presente all’anteprima nazionale, ripete con forza l’Italianità di questo Dopo la guerra. E nonostante gli accenni di assenso degli attori presenti in sala, seguiti da parte del pubblico, un velo di ironia si diffonde tra quei maliziosi spettatori che da quelle parole corrono con la memoria sino a Stanis La Rochelle, il geniale personaggio dell’Italianissima serie Boris, che da sempre si scaglia con una certa ambiguità contro tutti quei film «Molto Italiani». Perché sì, attori e produttori sembrano proprio non sbagliarsi nel rimarcare l’importanza di parte della provenienza di questo film, ma è in quelle risate maliziose che quest’affermazione trova la sua contraddittoria e parodistica realizzazione.
Interamente girato a Bologna nelle proprie scene italiane, Dopo la guerra non risulta «Molto Italiano» per le sue immagini e i suoi ambienti, tra l’altro talmente incastrati nel centro famigliare della storia da non riuscire mai a caratterizzare realmente i luoghi del racconto, bensì per una certa ricorsività della regia e dei dialoghi; ben nota agli spettatori televisivi. È un attimo infatti trovarsi travolti da una storia che, nonostante un soggetto interessante, si sviluppa ripetendo canoni registici da film per la televisione. La regia, seppur non risultando mai fino in fondo anonima o svogliata, lascia infatti intendere una certa secondarietà dell’immagine mostrata, costruendo quello che da anni le televisioni italiane propinano come romanzi per la tv.
Non lasciamoci però convincere che si stia obbligatoriamente parlando di un carattere totalizzante e negativo. I dati di molte pellicole televisive non lasciano infatti credere che questi prodotti dispiacciano al pubblico, il quale, interessato ad un racconto e niente più, si lascia anche qui piacevolmente trasportare da parole e discorsi di una narrazione che, però, cala drasticamente dopo un inizio di silenzi e attesa. Dall’ottimo soggetto e dal discutibile finale si attua infatti una distanza abissale, la quale, questa volta sì, potrebbe essere affrontata come il vero errore di questa pellicola.
Una conversazione diluita
È una struttura chiasmica quella a cui è posto davanti lo spettatore di Dopo la guerra. Uno schema che inizia nel silenzio, prosegue nel frastuono, si sviluppa in questo e torna alla quiete; un inizio ed una fine che si richiamano creando una struttura narrativa rindondante, uno spazio narrativo in cui c’è tensione, sì, ma sempre inserita in spazi mai realmente pericolosi. Un’idea, quella sottesa dalla Zambrano, che vede nel film una bolla protetta dentro cui inserire e mischiare il concetto di famiglia, di educazione e società, in un quadro più ampio e ferito: l’Italia. Quanto realmente si sposti il discorso storico all’intero di questa struttura è tutto da verificare, perché se da un lato appare indiscutibile l’importanza di un film che riaccentra il dialogo tra storia e società, dall’altra, forse a causa del suo divagare adolescenziale, si mostra un certo annacquamento della riflessione in ramificazioni dalla dubbia importanza. La sceneggiatura si rivela così alla ricerca di una colonna portante per il centro della questione, trovando in Viola e Marco quel rapporto capace di sostenere ciò che dialoghi mischiati nel luogo comune dell’intellettuale di sinistra, rappresentato da un taciturno Marco, non riescono a mantenere saldo.
Il risultato è un film che si lascia guardare senza mai realmente spostare la riflessione di quell’idea iniziale, permettendo allo spettatore di dubitare della veridicità delle parole di Marco e delle lacrime della sorella, ma al contempo suggerendogli una soluzione finale, che ovviamente non riveleremo qui, dal gusto provvidenziale e definitivamente lontana da ogni possibile riflessione storica.