Per tutte quelle notti in cui abbiamo visto le immagini dei cadaveri ci siamo rannicchiati nel nostro letto e abbiamo soffocato le nostre urla nei nostri cuscini e con i pugni chiusi e gli occhi bagnati di lacrime sognavamo la libertà, fino alla mattina. Per tutti quei giorni in cui ci hai svergognate a causa dei nostri corpi e con quello sguardo pesante e sporco sui nostri capelli, petto e corpo ci hai avvertite che avremmo dovuto vergognarci del nostro corpo, il corpo innocente e indifeso, imponendoci di nasconderlo con un contorto intreccio di stoffe. Per tutti quei momenti in cui ognuna di noi è stato vittima della tua brutalità mentale e comportamentale, e ci hai obbligate a chiedere ai nostri padri, mariti, fratelli, il permesso di respirare.
Delshad Marsous, 29 Ottobre 2022, Milano
Si apre così il discorso di Delshad Marsous, artista iraniana che vive in Italia da ormai più di dieci anni e che, insieme ad altre migliaia di persone, si trovava in piazza San Giovanni in Laterano sabato 29 ottobre. Tutte le settimane, Delshad manifesta a Milano per la liberazione dell’Iran dalla dittatura, lanciando un grido di disperazione e rabbia che si unisce alle voci di milioni di iraniane e iraniani in tutto il mondo. Insieme a Delshad c’è il marito, Taher Nikkhahabyaneh, anch’egli artista, e l’amica Rayhane Tabrizi, che traduce il discorso di Delshad in italiano, urlandolo alla piazza con la sua voce squillante. È una chiamata che non può lasciare indifferenti: trasmette non solo dolore, ma soprattutto forza, combattività, speranza.
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Delshad, Rayhane e Taher sono consapevoli che quello che possono fare dall’Italia è solo una minima parte rispetto a quello che stanno facendo le ragazze e i ragazzi che ogni giorno perdono la vita in Iran al grido di «Donna, vita, libertà!». Eppure si espongono, mostrano il viso, organizzano manifestazioni e creano reti di comunicazione, rischiando così di non poter più fare ritorno in Iran dalle loro famiglie: non è raro che dall’ambasciata iraniana vengano mandati agenti della polizia morale per individuare e denunciare i dissidenti. Sanno che le loro piattaforme social sono casse di risonanza, le loro voci amplificano quello che accade in Iran. Hanno il telefono in mano, intenti in un costante scroll su Twitter. Rayhane è informatica e ci spiega quali sono le room in cui entrare, i profili Instagram da seguire per accedere a fonti attendibili e non censurate.
Durante le manifestazioni intonano Baraye, brano di Shervin Hajipour ormai divenuto l’inno della rivoluzione delle donne iraniane, Bella Ciao e canti popolari in farsi. Organizzano flashmob in cui simulano la loro morte, rievocando il destino di molte persone che manifestano in Iran; si prendono per mano e formano una catena umana che simbolicamente unisce le iraniane e gli iraniani di tutto il mondo.
La forza delle loro manifestazioni risiede proprio nella partecipazione e nell’impatto emotivo.
Rayhane, Delshad e Taher ci raccontano che dall’inizio delle proteste, scoppiate a settembre in seguito alla morte di Mahsa Amini, la paura e l’incertezza hanno lasciato spazio alla consapevolezza che questo regime cadrà.
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Quando insieme al regista Ruggero Gabbai, che sta girando un documentario sulle proteste delle donne iraniane, ci sediamo con Rayhane, Delshad e Taher, loro ci raccontano della loro previsione sull’esito delle manifestazioni. Rayhane commenta:
Pensiamo che la dittatura dell’Ayatollah cadrà prima del capodanno persiano (20 marzo 2023 nda), ne siamo certi. Ci arrivano in continuazione notizie dall’Iran, anche quelle che cercano di tenerci nascoste, e sappiamo che le figure ai vertici del governo stanno lasciando il paese, questo significa che hanno capito che vinceremo.
Poi prosegue Delshad:
Quando da studentesse e studenti abbiamo preso parte alle proteste del 2009 abbiamo visto le nostre compagne e i nostri compagni morire per strada e sapevamo che poteva succedere anche a noi. Insegnavo Belle Arti all’università e da un giorno all’altro la polizia morale mi ha cacciata. L’accusa? Non ero una buona musulmana, non portavo l’hijab come dicevano loro, protestavo, sfidavo il potere. A quel punto io e molti altri abbiamo deciso di lasciare il Paese. È in questo che le giovanissime e i giovanissimi che stanno lottando ora in Iran sono diversi da noi: hanno deciso di restare e resteranno fino alla vittoria.
Alcune istituzioni italiane partecipano alle manifestazioni, a Roma Articolo 21, la Casa Internazionale delle Donne, l’europarlamentare Pierfrancesco Majorino, ma le iraniane chiedono gesti ancora più forti, come la chiusura dell’ambasciata e l’allontanamento del corpo diplomatico iraniano.
«Non vedo l’ora di entrare in aeroporto e di mettere piede nella terra libera dell’Iran» ci dice Rayhane.
«So già che l’ultima scena del documentario riprenderà proprio questo: il ritorno delle donne iraniane in una Teheran liberata» aggiunge Gabbai.
Il 14 novembre la stima delle vittime è arrivata a 380 ed è in continuo aumento. I feriti sono più di 1.000; ed è di qualche giorno fa la notizia di un’altra studentessa curda, Nasrin Ghaderi, uccisa brutalmente dalle forze di sicurezza iraniane durante una manifestazione a Teheran.
Neppure questi sconfortanti dati fanno perdere la speranza e la voglia di lottare a Delshad, che chiude così il suo discorso rivolto alle piazze in protesta:
Questo sangue però non è rimasto sulla terra, la terra ha risucchiato il nostro sangue e noi donne siamo germogliate come i fiori. Noi siamo donne e forse nessuno ti ha avvertito di questo: se legherai i nostri piedi che si accingono alla corsa, noi donne partoriremo altre donne che saranno dotate di ali per poter volare.
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