Quando Donald Trump ha annunciato la sua candidatura alle primarie del GOP– in modo abbastanza eccentrico, all’interno della Trump Tower, a New York– abbiamo pensato ad un troll. Uno di quegli scherzi che certi miliardari o personaggi dello spettacolo fanno. D’altronde, già era successo che personaggi rinomati e con un’inclinazione allo scoop si presentassero con partiti e proposte che non stavano da nessuna parte. La sua candidatura è stata fin da subito notata soprattutto dai programmi satirici, come il Daily Show di John Stewart e successivamente anche dalla stampa, come il The New Yorker.
Poi sono passati i mesi e abbiamo scoperto che Donald Trump è tutto, fuorché uno scherzo.
Classe ’46, con un patrimonio stimato attorno ai 15 miliardi (ma i suoi detrattori parlano di montagne di debiti), chioma folta e bionda (scherzosamente imitata anche durante l’intervista di Jimmy Fallon), conduttore di un programma sulla NBC, The Apprentice, Donald Trump ha attirato presto l’attenzione su di sé. C’è chi, senza esagerare, lo ha paragonato ad un Silvio Berlusconi in versione stelle e strisce, paragone che a Donald sembra piacere. “Mi piace, è un grande imprenditore” ha dichiarato. Fin dai primi comizi, infatti, propone un muro che divida il Messico dagli Stati Uniti perché:
Quando il Messico manda la sua gente, non manda i migliori. Ci manda persone che hanno un sacco di problemi e che se li portano dietro. Portano droga. Portano il crimine. Sono stupratori. E alcuni, immagino, sono comunque brave persone.
Per via di questa affermazione, si era visto richiamare dai vertici del Partito Repubblicano, richiamo che, nonostante tutto, Donald Trump ha ignorato. Non è stato l’unico attacco al suo partito: poco dopo infatti avevano fatto scalpore le sue parole contro il senatore John McCain, veterano di guerra. Donald Trump aveva infatti dichiarato che non si tratta affatto di un eroe, perché un eroe non si sarebbe fatto catturare. Alcuni esponenti del GOP, anche questa volta, avevano chiesto un passo indietro da parte di Trump, mentre lui si era giustificato affermando che anche McCain aveva definito pazzi i suoi sostenitori.
Sul fronte economico, propone dei tagli ulteriori alle imposte e a chi gli chiede come farà ad attuarli senza deficit (il Conservative Tax Foundation parla di un aumento di 10 trilioni in dieci anni) risponde che questi soldi faranno ripartire l’economia e gli investimenti e che verranno comunque supportati da un piano di tagli anche alla spesa pubblica, a partire dal settore dell’istruzione. E proprio di scuola ha parlato recentemente Donald Trump: a seguito dell’ennesima strage nei college, ha dichiarato che queste cose non succederebbero se gli insegnanti fossero armati e che avvengono non tanto per una legge troppo permissiva sulle armi, ma per delle malattie mentali degli esecutori (anche Jeb Bush non si è risparmiato, affermando che “It happens” ovvero “sono cose che succedono”” tradotto liberalmente). Allo stesso modo ha commentato i fatti di Parigi. Tutto ciò è condito ovviamente da misoginia e attacchi al limite del vituperium.
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Sul pianeta Trump, l’America perde in ogni campo. Perde in campo economico, in politica estera, in campo militare, l’America è un paese in rapida decadenza e “il sogno americano non esiste più”. I nemici- la Cina, l’ISIS, la Russia, e chi più ne ha più ne metta- sono alle porte e sono pronti a distruggere l’America in un attimo. Per questo lo slogan elettorale scelto da Donald Trump è “Make America Great Again“, un imperativo che ben si sposa con i suoi toni.
Il responsabile, di questa decadenza, sarebbe l’attuale presidente Barack Obama, definito “cheerleader invece che leader“. Questo atteggiamento però sembra premiare Trump tanto che la maggior parte dei sondaggi lo dà in testa per le primarie repubblicane. Anche durante i dibattiti, la sua supremazia si evince dal modo in cui gli avversari si comportano: sembrano agnelli nella gabbia del leone, tremanti per il timore di essere divorati.
Ciò che emerge, però, da questo quadro è innanzitutto uno spostamento a destra del Partito Repubblicano, che riprende istanze xenofobe, razziste e protezioniste. Ma l’aspetto politico è altrettanto interessante e riguarda il problema delle primarie. Uno strumento che, ormai, in America ha perso il suo fascino, facendo sì che le votazioni siano proprietà delle frange più estremiste del partito, come quelle associazioni e quei movimenti contro l’aborto o a favore del commercio di armi, che possono sì vincere in un contesto strettamente partitico, ma che incontrano enormi difficoltà nelle Presidenziali.
Donald Trump comunque non sembra desistere. D’altronde lui stesso ha dichiarato che “non importano i sondaggi, ma far tornare grande il nostro paese”.
di Mattia Marasti
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