Un grande, grandissimo romanzo da Premio Strega si è svolto in questa legislatura. È il romanzo di Luigi Di Maio. Era entrato in parlamento nel 2018 come Giggino, ma non sapeva che ne sarebbe uscito come Luigi, un uomo. Era entrato manettaro, moralista quasi puritano, ne uscirà garantista, machiavellico quasi renziano. La sua parabola è un grande romanzo di formazione targato Cinque stelle, pronto a essere trasposto come squallida fiction Rai ambientata in Parlamento con attori cani. Ancora una volta, l’estate italiana ci regala una commedia nella tragedia e viceversa, un dolceamaro italiano.
Il governo Conte I
A guardarlo ora, Di Maio non lo si riconosce più. Dopo essere entrato in Parlamento per sventrarlo nel 2013 ed esserci rimasto nel 2018 pieno di begli ideali e con il 30% in tasca, il piccolo Di Maio aveva affrontato il balletto politico dei forni post-elettorali e tutto era andato (quasi) per il meglio. Era divenuto, “contratto di governo” alla mano, Ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, nonché vicepremier, nel governo Conte I ed era riuscito anche a mantenere una promessa, facendo approvare il reddito di cittadinanza, poi celebrato con tanto di festicciola sul balcone di Palazzo Chigi.
Era il faccino pulito e sbarbato del Movimento, con il vestito della domenica, tanto diverso da quel Grillo urlante e trasandato che qualche anno prima faceva gli incontri con Bersani in streaming e sbraitava alle consultazioni. Lo spread volava e Toninelli era ministro, l’impossibile sembrava non esistere, tutti erano giovani, belli e felici.
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I cambiamenti
Poi, la crisi di Ferragosto all’italiana, il “suicidio” di Salvini, l’alleanza dei Cinque stelle con il PD e la poltrona pesante al Ministero degli esteri. Ma le cose nel Movimento non andavano bene. Quei giovani tanto freschi, apparentemente incorruttibili, stavano sprofondando nel pantano della politica romana, e i “vaffa” grillini della prima ora suonavano ormai come madeleine di una gioventù sbiadita.
In tanti lasciano il Movimento, tanti altri si trasformano in pescecani da corrente tipo DC andreottiana e nel 2020 anche Di Maio è costretto a dimettersi da capo politico. Le 5 stelle si stanno dissolvendo nel vento. Di Maio decide che è ora di finirla. Carica con sé Castelli, Di Stefano, Spadafora e qualche altro amico e crea il suo partito. Niente sarà più come prima.
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Il nostro eroe ha affrontato i suoi demoni ed è cresciuto. Nella conferenza stampa di presentazione di Insieme per il futuro (una roba che non si vedeva dai tempi di Lupi e Alfano), sembra ormai Carmelo Bene appoggiato su lussuosi divani barocchi che mormora «ed io non voglio più essere io». E come possiamo negare che quando ha detto «uno non vale l’altro», una lacrimuccia sia scesa, soprattutto pensando a quell’inno orrendo che diceva «non siamo un partito non siamo una casta / siamo cittadini punto e basta / ognuno vale uno ognuno, vale uno». Pian piano, sta capendo anche lui.
Di Maio è ora un adolescente, un petit Rimbaud, che fugge di casa e va a fare la bohème un po’ alla buona, senza troppa intelligenza ma con tanta poesia nell’anima. Così, invece di fare l’unica cosa che avrebbe un senso politico e che gli porterebbe qualche voto, ovvero rifondare il movimento sui suoi principi originari, crea un ennesimo insipido partitino di centro, simil-DC, simil-Forza Italia, senza però averne l’acume e completamente fuori tempo massimo. Ma non ci possiamo far nulla.
Ormai Di Maio è stato folgorato sulla via del garantismo, è in ribellione contro il padre, Grillo, che lascia da anni i suoi pargoli nell’anaffettività. Ora Giggino è diventato Luigi: è grande e va in bici da solo. Magari sorretto da due rotelle. O tre. Bisogna lasciarlo volare, ma fa tenerezza ricordarlo così candido, giovane e ingenuo.
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