Tutti conoscono Woody Allen. O meglio, non tutti hanno visto la filmografia completa, ma almeno una pellicola che sia tra le più recenti o tra i capolavori del passato la conoscono. E la apprezzano. Allan Stewart Königsberg è nato l’1 dicembre del 1935 a New York da una famiglia ebrea russo-austro-tedesca. Questo bel mix di provenienze è stato sicuramente determinante nella formazione di Woody, che nel suo cinema sì è concentrato sulla crisi esistenziale degli ambienti intellettuali e sul ritratto caricaturale degli ebrei newyorkesi, restando sempre profondamente autoironico.
Guardando i suoi film si intuisce subito il tentativo di esorcizzare paure e psicosi, proiettandole su uno o più personaggi. Impossibile inscriverlo in una qualche corrente o scuola: lui è i suoi film e questi ultimi non potrebbero essere realizzati se non da lui, sebbene abbia sempre espresso ammirazione per quelli che lui considera i suoi maestri umoristici, i Fratelli Marx. Qualcuno lo critica, dandogli dell’egocentrico, nevrotico, incapace di vivere. Allen è tutto questo e molto di più. Proviamo a percorrere la sua evoluzione attraverso alcuni film. Cominciamo con Prendi i soldi e scappa (1969) , capolavoro dell’umorismo alleniano.
Il protagonista,Virgil Starkwell, non è in grado di avere una vita normale e non certo perché non lo voglia, ma perché ogni casualità della vita sembra metterglisi di traverso: i compagni a scuola lo prendono in giro, i genitori si vergognano e lui non trova senso a nulla sapendo che dobbiamo morire tutti prima o poi. Tutto questo fino agli otto anni circa. È facile intuire che con così gaie premessa sia dura impostare una vita serena e infatti si trova a fare il ladruncolo per sbarcare il lunario, nel frattempo si sposa, ha un figlio, diventa, in un crescendo di gag, un pericoloso criminale e alla fine viene catturato dal FBI. Nel complesso la trama potrebbe non sembrare granché, ma Woody riesce a farti ridere riflettendo dall’inizio alla fine, infilando qua e là digressioni sul senso della vita, sull’antisemitismo e sulla precarietà della condizione umana.
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Woody Allen si sente come i personaggi che interpreta: piccolo, insignificante, invisibile, nervoso, nevrotico, ma estremamente lucido e pungente quando si tratta di affrontare discorsi pregnanti. Come tutti anche lui però prova ammirazione per chi è risolto, adulto, senza complessi di sorta e nel 1972 con Provaci ancora Sam da vita ad un capolavoro che è un po’ il suo sogno: avere a disposizione un Humphrey Bogart 24h/24 che gli faccia da coach e gli suggerisca come comportarsi nella varie situazioni, specialmente con le donne, creature per lui soavi, eteree, ideali, ma assolutamente incomprensibili e con cui fatica a rapportarsi ancor più che con gli uomini.
Il film scritto da Woody e diretto da Herbert Ross è un trionfo di umorismo e un ritratto molto realistico delle situazioni che spesso si creano tra amici e coppie. Ecco che si profila un tratto saliente dell’opera di Allen e cioè la capacità di portare sullo schermo la realtà rapporti tra esseri umani senza orpelli hollywoodiani, permettendo così allo spettatore di identificarsi nei protagonisti e provare una piacevole sensazione di sollievo rispetto ai problemi da cui è afflitto.
E arriviamo ad uno dei suoi cult movie, Manhattan del 1979. Basterebbe la presenza sulla scena di Meryl Streep e la colonna sonora di Gershwin per decretare il successo, ma questo film è innovativo sotto tutti i punti di vista. Isaac Davis, interpretato da Woody Allen, è un autore televisivo appena divorziato dalla seconda moglie Jill (Meryl Streep) che l’ha lasciato per una donna. Isaac frequenta ora la splendida e giovanissima Tracy (Mariel Hemingway), in cui però vede solo una parentesi data la differenza di età. Intanto il suo migliore amico Yale, sposato con Emily, si affeziona a Mary, con la quale Isaac stringerà poi amicizia ad una festa. Mary a sua volta è indecisa tra l’amore per Yale e la paura di rovinargli il matrimonio, e decide di stare con Isaac. Nel frattempo a Tracy viene offerta l’opportunità di studiare in una prestigiosa accademia di recitazione a Londra e, innamorata, vorrebbe andarci con Isaac, il quale rifiuta non vedendo in lei nulla di stabile. Mary però torna da Yale e Isaac supplica Tracy di rimanere, rendendosi conto di essere rimasto solo. Tracy rifiuta e gli chiede di aspettarla.
Questa commedia delle coincidenze ci regala un affresco delle relazioni amorose così come sono: niente dissolvenze, baci spettacolari o amori tormentati. L’amore sembra essere un bisogno, un balsamo in grado di lenire il dolore della solitudine davanti all’incomprensibilità dell’esistenza, ha poco di generoso e molto di egoistico. Amo e voglio essere amato per non restare solo. La sola che ama davvero è la giovane Tracy, non ancora diventata cinica e nella quale possiamo leggere il desiderio di Allen di ritornare all’età della vita in cui tutto era ancora di scrivere.
Un racconto così moderno e disincantato dell’amore non poteva che essere in bianco e nero, quasi il regista volesse esaltare l’antichità di un tema universale. La fotografia si concentra su primi piani di volti di individui che si incontrano e cercano negli occhi dell’altro una risposta ai propri dubbi e paure. La donna si fa sempre più protagonista dei film di Allen, malanno e cura oltre che musa.
Facciamo ora un bel salto temporale e arriviamo al 2003, anno di uscita nelle sale di Anything Else, con Jason Biggs, Chistina Ricci, Danny DeVito e Stockard Channing, la “Rizzo” di Grease. Jerry Falk, interpretato da Biggs e personaggio in cui Allen ha messo tutto se stesso, è un comico che arranca nello showbiz, si innamora di un’affascinante quanto lunatica attrice esordiente e trova conforto nei discorsi fatti passeggiando per New York con Dovel, interpretato da Woody. Parlano delle loro vite e del mondo in dialoghi gustosamente alleniani, ma di un Allen cresciuto, ancora insicuro e nevrotico, ma più predisposto ad accettare alcune dinamiche. Jerry è il Woody degli anni ’70 e Dovel quello di oggi che, dopo anni in analisi, cerca di dare una risposta ad almeno metà delle sue domande e laddove ciò non è possibile prova ad esorcizzarle con ironia. L’ambiente degli scrittori, degli artisti è per lui fonte di grande ispirazione. Lì abitano coloro che più di altri si pongono le domande più importanti della vita e ne hanno paura e da questa paura, man mano che procedono nella vita o ne vengono inghiottiti o tentano di dominarla risultando quasi superbi e antipatici.
Concludiamo con Midnight in Paris , viaggio onirico di Gil (Owen Wilson) in una Parigi degli anni 20 in compagnia di Hemingway, Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, Dalì e tanti altri. Un sogno per ogni scrittore, che porta il protagonista ad interrogarsi su cosa conta davvero nella vita tra l’apparenza, il successo e i soldi oppure la passione, l’amore. Pare che con l’età il nostro Woody si sia rabbonito. Dopo tanto realismo, ironia, puntine di cinismo, ora che è più in là con gli anni sembra volersi abbandonare al fragile ma orgasmico piacere del sogno e dell’illusione.
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Dobbiamo ringraziare questo regista: ha sdoganato al cinema l’insicurezza come caratteristica tipica e topica di chi ragiona su dov’è, come ci è finito e come può starci senza troppo dolore, facendoci sentire tutti più sollevati. Non ha preteso nulla se non tentare di semplificarsi la vita mettendo sullo schermo se stesso e le situazioni conosciute. E all’età di 79 anni ci ricorda che non sempre i grandi talenti vivranno per sempre nei loro capolavori, ovviamente senza arrivare a 60 anni, perché sarebbe poco poetico. Woody è vero e anche il suo cambiamento che tutti notiamo nei suoi film lo è e rappresenta altrettanto fedelmente il cambiamento avvenuto dentro di lui come accade a tutti nel corso della vita. Arriva un momento in cui si capisce che ci si può anche lasciare andare ai sentimenti (non ai sentimentalismi!) perché fa bene all’anima.
di Susanna Causarano
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