Elegante e spudorata, graffiante e rapace. Djuna Barnes è una creatura proteiforme, conosce il mistero assumendone i tratti, gioca con la seduzione tra vesti impudiche e «il soggolo della trappista»[1] – indomita vestale del testo frantumato, torto, intessuto di caos.
Campeggia, nella sua opera più famosa, quello che Elémire Zolla definisce il «mito della bella schizofrenica, vagabonda e in un certo senso custode della spontaneità, imprevedibile, per altro senso atona, vegetale»[2], pieno correlativo di una natura ardita e sagace, infinitamente più ‘viva’ dei dannati Fitzgerald, votata alla negazione oltre il cupio dissolvi.
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Eros e ibridismo in Djuna Barnes
Cronista ‘d’assalto’, un po’ mondana (dal Brooklyn Daily Eagle a Vanity Fair) e assai sperimentale (varie le collaborazioni con i teatri d’avanguardia), Barnes pratica le zone del modernismo sottoponendo i dati, con intensità oscillante, alle ‘costrizioni’ imposte da tendenze e ‘scuole’, sì da indurre i critici – come Ina Danzer – a collocarne l’opera tra il grottesco e il Surrealismo[3], in un perpetuo superamento di barriere e generi.
I racconti su rivista si mostrano già pervasi di un erotismo cerebrale, tramato di simboli bivalenti, quasi metafisici nel senso saviniano del termine, tesi dunque alla penetrazione nelle cose, con sguardo inedito e altro[4]. La folla che anima le pagine è specchio di una realtà cosmopolita e decadente, ambiguo coacervo di prostitute, artisti, uomini schiacciati da disforie patologiche, messi in comunicazione – tra loro e con il mondo – in zone innominabili, prossime alla follia e al blackout morale.
Il buio come motivo dominante
Nightwood (1932), il romanzo più noto di Barnes, reca già nel titolo la metafora del buio, antropologicamente identificato con l’impossibilità di vedere, di discernere – e comprendere – ciò che si manifesta a livello mentale. Il bosco, poi, è esso stesso mistero, luogo sospeso, insondabile, dove spariscono cose e persone. Messi insieme, questi due termini costituiscono un dispositivo potente, un punto di coagulazione, quasi, di significati sfuggenti, legati – in maniera dis-organica – a zone dell’immaginario che Barnes intercetta.
La foresta della notte (come è edito in Italia) è dunque il magma di una «sinistra fauna umana», il compimento dell’atmosfera ‘oscura’ dominante, già visibile nei racconti e in certi versi implacabili, laddove ogni ordine è sovvertito, abraso, «sino a giungere a una condensazione di immagini […] di innegabile ambiguità»[5].
Trame e immaginario
Zolla afferma che il romanzo, «a tutta prima», «sembra un gabinetto di curiosità teratologiche: varie lesbiche fuori di senno; un medico californiano di origine irlandese, di sesso incerto, che parla all’impazzata; un Mercuzio piombato per avventura nella Dublino di Joyce ed emigrato poi a Parigi; una schizofrenica, Robin, mezza bambola e mezza vergine folle che tutti gli altri mostri s’industriano di catturare e far loro»[6].
Un’impressione, dunque, il ‘segno’ che Barnes si prodiga a rovesciare. L’opera è infatti intessuta di reminiscenze classiche, nel sotto-testo si riconosce la Bibbia, il ‘dark romanticism’, Frederick Rolfe ed Eugene Jolas. L’autrice disegna trame arabescate che (ci) rammentano il fermento del sogno, la sua stretta parentela – ancora – con il campo dell’immaginario, fatto di miti, favole, grande letteratura fantastica.
Rivelare l’invisibile
Quest’idea di ‘bagaglio’ comune, dai confini poco pacificati eppure avvertiti, si intreccia con il concetto freudiano di tradizione sovvertitrice, secondo il quale – scrive ancora Zolla – essa «è viva in quanto non si conosce e arriva come un soprassalto, scandalizza arrivando dal tempo remoto[…]»[7]. È quanto emerge dal dialogo tra il dottore e il barone, ove il primo dichiara l’urgenza del male, la necessità di rigettare – se è concesso utilizzare categorie pasoliniane – l’“ossessione dell’identità”: «Un uomo è intero soltanto quando prende in considerazione anche la sua ombra».
T. S. Eliot si perita di darne avvertenza, scrivendo nella prefazione che «nelle vite normali l’orrore è nascosto» e cosa c’è di più ‘rivoluzionario’ del rendere visibile l’invisibile? Il mezzo – ossia la poetica del sensuale e derelitto – rivela un intento sovvertitore che fa di Barnes una fustigatrice della borghesia, una critica ancor più spietata perché interna alla classe.
Djuna Barnes: il femminile frantumato
In filigrana al rovesciamento della «bambola-ornamento […] estrema propaggine della bella schizofrenica»[8], l’autrice denuncia l’ansia di possesso che si fa privazione, confisca estrema del proprio io frantumato.
Siffatta sensibilità germoglia sino a prendere (nuova) forma nel dramma The Antiphon (1958), i cui versi liberi restituiscono l’annullamento di una madre e di una figlia, figure emblematiche della concezione barnesiana, secondo la quale «l’essere – e segnatamente l’essere femminile – appare irrimediabilmente frantumato e disperso in una sorta di waste land»[9].
Lei stessa, liberamente attratta da uomini e donne, ‘fuori canone’ anche nella vita, rivela in versi un sentimento amaro: «Sono la donna – sono io – / Soffro pace malgrado ogni mia pena, / e sopporto dolore attraverso ogni mia pace; / questo tormento insufficiente – / questo teso dolore che non sento»[10].
Tormento, estasi, svelamento
L’amore stesso è inizio e fine, una resurrezione dei sensi che conduce, dolcemente, all’approdo finale: «Quando è scomparsa la carne e il suo bacio, / ed i sinceri amanti giacciono dente a dente / in un groviglio pigro di osso ad osso, / come la chiami, estasi?».
Tutta l’opera di Djuna Barnes si muove tra Eros e Thanatos, è un percorso di dolore ri-vissuto su carta, la voce di folle inquiete e scandalose, indefessamente votate allo smascheramento della vita.
Note
[1] Cfr. C. Campo, Gli imperdonabili, Milano Adelphi, 1987.
[2] E. Zolla, Djuna Barnes, in “Studi americani”, 1959, p. 307.
[3] Cfr. I. Danzer, Between Decadence and Surrealism: The Other Modernism of Djuna Barnes, in “Arbeiten aus Anglistik und Amerikanistik”, 23, 2, 1976.
[4] Si veda in particolare A. Savinio, Torre di guardia, Palermo, Sellerio, 1977.
[5] E. Badellino¸ Le scrittrici dell’eros. Una storia della pornografia al femminile, Milano, Xenia, 1991, p. 166.
[6] E. Zolla, Djuna Barnes, cit., p. 301.
[7] Ivi, p. 306.
[8] Ivi, p. 307.
[9] E. Badellino, Le scrittrici dell’eros, cit., p. 166.
[10] Cfr. D. Barnes, Disincanto. Poesie 1911 – 1982, a cura di M. Del Serra, Roma, Edizioni del Giano, 2004.
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