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«Dio Pluto»: la cecità della ricchezza e come aggirarla nella lezione di Aristofane

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Martedì 13 marzo è andata in scena sul palco del Cenacolo Francescano di Lecco Dio Pluto, vivace riscrittura della commedia Pluto di Aristofane, diretta e interpretata da Jurij Ferrini, accanto a Francesco Gargiulo, Federico Palumeri, Andrea Peròn e Rebecca Rossetti.

Pluto
fonte: www.teatrocarcano.com

Sullo sfondo, una società dai contorni vaghi, che può coprire uno spazio esteso tra l’Atene del IV secolo e i nostri giorni, attraversata da ingiustizie sociali profonde, dominata dai malfattori e dai disonesti, divisa irreparabilmente tra ricchi e poveri; in primo piano, impetuosi e agitati, il vecchio e povero Cremilo e il suo servo Carione alle porte del tempio di Delfi, dove si sono recati per interrogare il dio Apollo su una questione sentita come stringente, che sarà poi il comune denominatore di tutta la commedia: suo figlio sarà destinato, al pari di lui, alla povertà?

L’oracolo invita Cremilo a seguire la prima persona che incontrerà sul suo cammino, e con grande sopresa dei due, appare loro una figura ostile, coperta di stracci, che si trascina per terra con una benda sugli occhi a prova della sua cecità. Con fatica e una certa irruenza nel rapportarvisi, i due riescono finalmente a cavargli delle informazioni preziose sul suo conto: quello straccione, maleodorante e che si regge in piedi a malapena, è in realtà un dio, per l’esattezza, così come egli stesso si autodefinisce, «un dio minore», «il dio Pluto! Il dio della ricchezza!»

All’udire questa notizia, Cremilo e Carione restano esterrefatti, non vogliono credere che un dio tanto importante, che regola una cosa che nella vita degli uomini risulta essenziale, colui che produce il denaro e lo distribuisce, «uno scrigno di tesori» in tutto e per tutto sia ridotto a quel modo senza che non gli venga data neppure la possibilità di replicare.

Pluto
fonte: www.teatrocarcano.com

Le condizioni di partenza

Gli dei, quelli maggiori, l’hanno reso cieco, di una cecità gravissima che è poi la metafora dell’inspiegabile diseguaglianza delle condizioni di partenza, che tormentano gli uomini sin dalla notte dei tempi senza che questi possano riceverne una giustificazione, nonostante i tentativi più accaniti di legare la propria ricchezza a una propensione individuale al lavoro e allo sforzo, che, sventuratamente non si sa come, non sarebbe comunque sufficiente per assicurare a tutti gli uomini una vita dignitosa. Pluto non vede e distribuisce il denaro a casaccio,  ma per una sorta di ordine interno questo si distribuisce sempre e costantemente su due poli opposti, sempre più lontani e incomunicabli: una massa di gente povera ma onesta e un mucchio di ricchi del tutto ingiusti.

E’ la ricchezza a rendere ingiusti, o devi essere già ingiusto per poter essere ricco?

La modernità di questo Aristofane che l’adattamento di Ferrini coglie ed evidenzia, risiede nella capacità acuta e critica di porre questa questione e altre simili, di formulare domande che per quanto ricche di connotati ideologici impongono una riflessione sulla propria quotidianità e il proprio rapporto diretto con il denaro.

Cremilo non può sopportare questa ingiustizia, che tocca personalmente lui e la sua famiglia. In modo senz’altro rocambolesco, reso benissimo nella sua originale comicità dall’abilità degli attori a alternarsi sulla scena con battute che richiamano la testa dello spettatore ai drammi economici dell’attualità, che variano la loro gamma dall’economia finanziaria, alle azioni, alla BCE e al fondo monetario inernazionale; tanti nomi e soggetti diversi, impersonali, che alla stregua del dio Pluto sono implapabili nelle loro decisioni e vengono spesso innalzati a principi divini, che tutto reggono tutto scrutano e tutto governano, imponderabili e insondabili  per l’uomo e per la sua conoscenza limitata.

Pluto, allora, viene sequestrato dai due, che decidono sia necessario, per fare onore ai giusti e agli onesti e punire una volta per tutte le ingiutizie, provare a trovargli una cura. Asclepio è un buon medico, Pluto viene guarito dal suo male e la sua guarigione pone le basi perchè anche la società sia depurata dai suoi mali, che hanno le loro radici più amare nella disonestà dei ricchi. Sembra dirci, Aristofane, che per salvare certe situazioni, solo un’azione drastica possa funzionare : è questo il tipo di miracolo che la realtà non conosce ma che la commedia ci concede il lusso di provare a immaginare.

Pluto riacquista finalmente la vista e finalmente le ricchezze vengono scorporate dai loro beneficiari originari per poter essere date ai più poveri, che poi, per quell’equazione già suggerita, sarebbero anche i più onesti; ruba al ricco per dare al povero, diceva Robin Hood, e qui il commediografo greco sembra preannunciare qualcosa di simile: Pluto, ora che può vedere, e con la vista ha finalmente la capacità di discernere i buoni dai malvagi, i giusti dai disonesti, genera uno sconvolgimento sociale irreparabile, degno di un Carnevale un po’ bizzarro che rovescia tutti i rapporti sociali ma con la pretesa che questi siano irreversibili: il faccendiere, il sicofante, arriva piangente sulla scena, coperto solo di un panno e costretto da Cremilo a spogliarsi anche di quello, e con lui altri personaggi topici, fino addirittura al dio Hermes.

La rivincita del povero

Ora è il povero a prendersi la sua rivincita, lui che finalmente può smascherare la ricchezza come portato inevitabile della disonestà. Ma, tornando alla domanda iniziale, non è che ora i vecchi poveri, resi ricchi, smettano anch’essi di essere onesti e diventino come tutti gli altri? Non è, quella del possesso di denaro, della ricerca di un quantitativo sempre maggiore, una strada senza uscita, che porta sempre su sè stessa, alla disonestà e all’egoismo? Pare suggerire, Ferrini, che una volta diventato ricco, anche il più buono smette di essere altruista, non è più disposto alla condivisione con gli altri, ad avere un ruolo nella società: prevale l’individualismo più bieco.

fonte www.teatrocarcano.com

Come contraltare al dio Pluto, fondamentale la comparsa di una figura che inserisce Ferrini nel testo, la personificazione della Povertà, «che vive con gli uomini, da sempre», una donna cenciosa che a cui vengono imputate le colpe più gravi, aver prosciugato i conti bancari e aver fatto pignorare la casa cerca di dimostrare la logicità di qualcosa che per Cremilo e un compagno che l’hanno vissuta sulle loro pelli è un’assurdità incontrovertibile: che la povertà sia portatrice di molti beni per gli uomini e che sarebbe stolto rendere ricchi i giusti e gli onesti. Astraendo, la povertà è come un principio di ordine che si genera dal denaro stesso; da cui la scoperta dell’inflazione: se si produce troppo denaro, in modo che tutti possano goderne, questo si svaluta, diventa carta straccia.

Ecco dunque che il denaro pretende di stabilire da sè le sue leggi, di autoregolarsi secondo il principio della distribuzione ineguale, che sarebbe garante di distinzioni sociali rispecchiate anche nel lavoro: senza la povertà, nessuno lavorerebbe, e la società non si potrebbe sostenere. Sembra una versione ante litteram della favola delle api di Mandeville: laddove le api, dapprima ruote indispensabilmente ingiuste di un ingranaggio/alveare produttivo e progredito, fossero rese tutte oneste, e le distinzioni sociali ed economiche di conseguenza fossero annullate, non ci sarebbe più alcun progresso, sarebbe la morte della vita della società stessa.

Estendere il discorso di Aristofane sui mali del denaro, specificamente greco, che farebbe sue piuttosto le ragioni di una povertà che spinge alla moderazione e impedisce agli uomini di perdersi in lussi eccessivi, alle contraddizioni del capitalismo moderno e contemporaneo potrebbe sembrare una mossa azzardata, ma Ferrini riesce bene, senza tradire lo spirito del testo e senza appiattire la complessità dei temi, nell’attualizzare e rivitalizzare problemi che si annidano nella sua diseguale distribuzione che si autoalimenta e che è resa sempre più acuta.

L’utopia instaurata e costruita dalla commedia, che sicuramente ha un valore comico di fondo ma anche una forte valenza critica nei confronti di una società che ha posto il denaro al di sopra di tutti gli dei e in cima ad ogni scala di valori, assume nella riscrittura di Ferrini un simpatico carattere socialista e rivoluzionario, in cui la critica sociale sfocia in una presa di coscienza del popolo finalmente riscopertosi nelle sue prerogative, che forte della riconquista della vista da parte del dio Pluto si orgnanizza in un atto di rivoluzione vera e propria, suggellata nell’ultima scena dalle note del celebre inno “El pueblo unido”: l’operazione di regia di Ferrini, coraggiosa per l’utilizzo molto libero della battuta e l’inserimento di un linguaggio colloquiale e di termini molto diretti, persino graffianti e coloriti in molti punti della rappresentazione, ci dimostra la sempre rinnovata capacità dei classici, in questo caso della letteratura teatrale greca, di parlarci e di farci riflettere su di noi.

Forse un rovesciamento radicale e l’instaurazione di una vera uguaglianza economica e sociale non è praticabile fino in fondo e in modo immediato senza che venga in soccorso un dio, ma serve rifletterci, tornare sul problema, immaginare quotidiane rivoluzioni e iniziare a esercitarvisi: i rovesciamenti bisogna tornare almeno a praticarli nel pensiero, perchè la constatazione delle cose così come stanno, implicitamente complice della loro conservazione, fa male alle teste ma anche all’azione per il miglioramento della società.

 

Martina Corti

Ho ventuno anni, studio filosofia all'Università degli studi di Milano, mi piace scrivere e sono appassionata di musica e di teatro.

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