Il primo maggio 1988 allo stadio San Paolo di Napoli andò in scena il match più importante dell’anno: a tre giornate dal termine si sfidarono le prime due della classe. I padroni di casa, campioni d’Italia in carica, ospitarono il Milan, fino a quel momento secondo in classifica. Sud contro Nord, un allenatore della vecchia scuola come Ottavio Bianchi contro il rivoluzionario Arrigo Sacchi, il presidente Ferlaino contro Silvio Berlusconi, Van Basten sfidava il trono di re Diego Armando Maradona.
C’erano tutti gli ingredienti per una sfida epocale. All’epoca il calcio italiano era un fenomeno quasi esclusivamente radiofonico, ma quella domenica pomeriggio, data l’importanza dell’evento, la RAI decise di trasmettere in diretta il secondo tempo del match. A posteriori non si possono avere dubbi: la decisione presa di viale Mazzini fu estremamente azzeccata. La prima frazione di gioco si concluse in parità e i telespettatori non poterono, di fatto, assistere in diretta all’iniziale vantaggio rossonero (Virdis) e nemmeno alla pronta replica su punizione del numero 10 partenopeo.
I restanti quarantacinque minuti segnarono per sempre la storia della stagione 1987-1988. E non solo. Ancora Virdis e Van Basten resero inutile il gol del brasiliano Careca. Napoli – Milan 2-3. I partenopei persero la propria imbattibilità casalinga stagionale, mentre i rossoneri grazie a questa vittoria si involarono verso la conquista del primo tricolore della gloriosa epopea sportiva di Silvio Berlusconi. Il calcio italiano cambiò definitivamente in quella soleggiata e primaverile domenica pomeriggio, giorno della festa dei lavoratori.
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Il Milan berlusconiano quell’anno vinse il suo primo trofeo, ad oggi (serie in aggiornamento, cordata cinese permettendo) i titoli sono 29. Il Napoli uscì dallo scontro diretto con le ossa rotte e fu costretto a scucirsi il tricolore dalla maglietta. Fino all’arrivo della primavera la squadra partenopea fu la padrona incontrastata della serie A, complice una rosa rafforzata dall’acquisto del brasiliano Careca. Ancora oggi in città si possono ascoltare discorsi che non ammettono repliche: il Napoli più forte? Quello del 1987/1988. Eppure fu un Napoli perdente, sconfitto, malinconico come lo sguardo di Diego Maradona subito dopo la débâcle casalinga e il sorpasso rossonero. Fu una squadra stellare abile a triturare qualsiasi avversario gli si ponesse davanti fino a poche giornate dal termine, quando i calciatori azzurri cominciarono a sciogliersi come neve al sole.
A chi additare le colpe? A Ottavio Bianchi e una preparazione fisica sbagliata? Al rendimento calante di Maradona? Oppure, semplicemente, a una rivale (il Milan) che avrebbe cominciato proprio quell’anno a inanellare una serie interminabile di trionfi, sia a livello nazionale sia continentale? Probabilmente tutte le risposte appaiono plausibili, per spiegare un avvenimento spesso risulta necessario accomunare un numero maggiore di cause, poiché una sola spiegazione può rivelarsi insufficiente. Eppure nei rioni cittadini il colpevole della perdita dello scudetto del 1998, già vinto a gennaio, rimesso in discussione a marzo e definitivamente lasciato scappare a maggio, è stato presto identificato. Non era Ottavio Bianchi, né Maradona, né il Milan di Sacchi.
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Procediamo con ordine. Il 10 maggio 1987 Napoli festeggia il primo tricolore della sua storia. La città si lascia andare a intere giornate e nottate di festa: è una liberazione dopo anni di sofferenze, non soltanto calcistiche. Eppure l’Italia non è solamente Napoli e, mentre la città festeggia, il Sole 24 ore, a Milano, esce con un titolo raggelante: «Lo scudetto del Napoli sbanca la camorra». L’organizzazione criminale di stampo mafioso, in quegli anni, teneva in mano il totonero, ovvero il giro di scommesse clandestine. In molto scommisero sul titolo del Napoli che a fine anno, puntualmente, arrivò facendo, sempre puntualmente, saltare il banco gestito dalla camorra. La stagione successiva le puntate sul Napoli vincente si moltiplicarono e, di fatto, un ulteriore trionfo partenopeo sarebbe stato un altro duro colpo in termini economici per le cosche camorristiche. A meno che, ovviamente, quel famigerato scudetto non venisse vinto.
Come tutte le storie di malaffare italiane c’è sempre la figura di un pentito che aggrava la storia con numerosi particolari. Nel presente caso si tratta del camorrista Pietro Pugliese, il quale conferma la versione dello scudetto venduto ai clan della camorra, teoria di cui in città si è sempre discusso animosamente. Addirittura Pugliese parla dell’imponente traffico di cocaina e delle amicizie che i calciatori partenopei ebbero con importanti camorristi dell’epoca. Celebre, in tal senso, la foto di Maradona intento a brindare con il boss Carmine Giuliano. Le rivelazioni di Pugliese vennero messe a verbale nel 1994, ma dopo accurate indagine, tale verbale non troverà conferma e verrà bollato come inattendibile.
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Cosa resta di questa vicenda? Qualche dato oggettivo e tante, tantissime parole. Dicerie, leggende, pettegolezzi che da un vicolo a un altro, dal centro alla periferia si espandono diventando via via sempre più gigantesche. Qualcosa di macabro, purtroppo, resta e non si può certamente bollare come falsità. Il corpo del figlio di Salvatore Bagni, morto in un incidente stradale, venne trafugato dal cimitero di Cesenatico. Per molti il gesto rappresentò la più classica delle minacce mafiose: un tragico monito per invitare il calciatore a non raccontare come effettivamente si svolse la vicenda dello scudetto del 1988.
Bagni insieme al portiere Garella e a Bruno Giordano, eroi del primo scudetto partenopeo, abbandonarono Napoli al termine della stagione. La città sibilò senza paura: ecco qua i tre colpevoli di essersi venduti il tricolore. Nel 1989 avvenne un furto a varie cassette di sicurezza della Banca di Provincia, fra cui quella di Diego Armando Maradona. Successivamente i clan si impegnarono per restituire il maltolto al fuoriclasse argentino: i magistrati provarono a interrogare Diego su questa presunta trattativa con i clan camorristici, ma Maradona non si presentò mai.
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In un paese che, a torto o a ragione, grida al complotto molto spesso, l’episodio dello scudetto del 1988 risulta essere una delle pagine oscure più intriganti della storia del calcio italiano. Le prove a disposizioni degli inquirenti furono pochissime e, di fatto, non si indagò mai realmente sull’accaduto. I calciatori in campo quel primo maggio, come Francesco Romano, centrocampista di quel Napoli, non hanno mai nutrito dubbi riguardo a queste maliziose insinuazioni: «Se ne sono dette tante, troppe, anche cattive. La verità, da uno che era in campo, è che loro (i milanisti, ndr) correvano e noi, al contrario, non correvamo più». Spiegazione sportiva che possiede solamente un demerito: non essere mai riuscita a tacere i mormorii di un’intera città.
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