«Io credo in una società in cui i libri ci saranno sempre, su carta o sui nuovi supporti informatici, e susciteranno il dialogo, la fantasia le emozioni e tutto ciò che è proprio dell’uomo».
Con le parole di Umberto Veronesi, il grande oncologo scomparso pochi giorni fa, si è aperta la quinta edizione di BookCity Milano. La manifestazione culturale, divenuta protagonista indiscussa del panorama milanese di metà novembre, è quest’anno più grande che mai: 1400 autori interverranno in più di un migliaio di eventi distribuiti in 260 luoghi.
Tutto inizia al Teatro dal Verme con la serata di apertura di BookCity 2016. Qui il Sindaco di Milano Beppe Sala, l’Assessore alla Cultura Filippo Del Corno, il Presidente di questa edizione Achille Mauri e tutti gli altri organizzatori sono presenti per dare il benvenuto al pubblico, intervenuto numeroso, e soprattutto alla protagonista della serata: Elif Shafak. Di origini turche, nata a Strasburgo, vissuta fra Istanbul e il resto del mondo, Elif Shafak ha scritto quattordici libri pubblicati in quarantadue Paesi. È legata all’Italia e, in particolare, a Milano dal 2007, quando ha pubblicato con Rizzoli la prima edizione italiana di La bastarda di Istanbul.
Elif Shafak, in realtà, si sente legata a tutti i luoghi in cui ha vissuto – davvero molti. Ognuno di essi, afferma, le ha lasciato qualcosa e dunque, pur essendo profondamente legata al suo Paese di origine, la Turchia, sente di appartenere insieme a nessun posto e a tutti i posti. È facile vedere in lei una sorta di ponte tra due mondi, quello occidentale e quello orientale, che sembrano sempre più irremediabilmente divisi. Ma, come ha affermato Elif in un’intervista al Times, «Oriente e occidente non devono essere come olio e acqua», devono potersi mescolare. Milano, afferma il sindaco Sala, comprende la necessità di integrare e avvicinare questi due mondi: ecco perché quest’anno è proprio Elif Shafak a meritare la consegna del sigillo della città.
«Milano non può non sentire vicina una scrittrice che con le sue opere narrative e con l’attività giornalistica e accademica ha celebrato e celebra la ricchezza delle radici culturali di Istanbul e della Turchia e continua a battersi per valori essenziali come la libertà e i diritti delle donne. […] La compassione, la comprensione e la limpidezza dello sguardo, l’ascolto delle voci e delle tradizioni differenti sono valori essenziali per la convivenza che Milano intende promuovere. Per questo oggi Milano onora Elif Shafak consegnandole il sigillo della città, con una promessa: che sarai vicina a questa città, ai nostri giovani alla nostra cultura con il tuo esempio».
BookCity è per Elif Shafak anche l’occasione per presentare al pubblico italiano il suo ultimo lavoro, Tre figlie di Eva. Il romanzo, come molti altri scritti dall’autrice, è ambientato a Istanbul e vede protagoniste tre donne, con tre storie diverse ma cosmopolite come chi le ha create. In un dialogo con Rula Jebreal, giornalista e scrittrice israeliana vissuta a lungo in Italia, Elif racconta molto di sé e della sua vita in giro per il mondo. Da bambina e donna turca, ha vissuto sulla propria pelle il peso del pregiudizio: ricorda, ad esempio, gli sguardi di diffidenza dei compagni quando frequentava la scuola internazionale in Spagna, divenuti ancora più aspri dopo che il turco Mehmet Ali Ağca aveva attentato alla vita di papa Giovanni Paolo II nel 1981.
Oggi la situazione non è molto cambiata e, anzi, pare stiamo tornando a una forma estrema di nazionalismo che la scrittrice definisce “tribalismo”: non è più sufficiente identificarsi in un popolo o in una nazione, si tende ora a chiudersi nella propria tribù, cioè in un gruppo di persone il più possibile simili tra loro, quasi indistinguibili. Dal Regno Unito dove vive attualmente, Elif ha potuto assistere alla campagna pro Brexit e vedere che i sostenitori del “Leave” sbandieravano una ipotetica e generica “invasione dei turchi” per convincere gli elettori.
Le persone sono in ansia, le persone hanno paura. Ma la paura, dice la scrittrice, non è sbagliata. È giusto essere angosciati dal proprio futuro e da quello dei propri figli e dall’arrivo di stranieri di cui non si conoscono cultura e tradizioni. I democratici e i liberali di tutto il mondo hanno sottovalutato questa angoscia, hanno accantonato l’empatia per far parlare solo i dati e questo li ha resi deboli. Quello che è sbagliato, però, è farsi dominare dalla paura e permetterle di guidare interi Paesi, perché questo non può che portare alla costruzione di muri – mentali e fisici – e all’isolazionismo. Ma ormai siamo troppo coinvolti nelle vicende del mondo, troppo connessi tra noi per poter pensare di troncare questo legame senza conseguenze tangibili. Senza contare che nel nostro recente passato c’è chi ha cercato di convincerci che la sicurezza si costruisce solo circondandoci di nostri simili, eliminando tutto ciò che è diverso. La storia insegna che non è una buona via.
Soprattutto, dice ancora Elif Shafak, non bisogna permettere che la paura cancelli quella straordinaria ricchezza che è il pluralismo culturale, religioso, linguistico e filosofico. La Turchia un tempo possedeva tutto questo ed è stata un grande impero, ma ha deciso di rinunciare a questo patrimonio in nome del nazionalismo; l’America e l’Europa, purtroppo, stanno seguendo il suo esempio. Reagire non sarà semplice. Per farlo bisogna partire dal basso: le persone comuni, soprattutto i giovani, sono molto diverse dai Governi che pretendono di rappresentarle. Solo tornando a guardare le persone in quanto tali si potrà ricominciare a sperare.