Non è mai semplice recensire gli spettacoli che nascono con il marchio dell’evento, perché essi sono sempre destinati a dividere il pubblico (e, forse anche più spesso, la critica), e di conseguenza ci sarà sempre qualcuno in disaccordo, pronto, più che legittimamente, a criticare il critico. Il debutto in Norma di Mariella Devia rientra senza ombra di dubbio nella categoria degli eventi più importanti di questo 2013 già così denso di date ricorrenti e produzioni potenzialmente storiche (poche, purtroppo, in Italia): non c’è bisogno di specificare la grandezza dell’interprete e del ruolo, poiché sono elementi talmente palesi che l’importanza dell’appuntamento salta subito all’occhio. Il sessantacinquenne soprano (l’età si specifica solamente come nota di merito all’artista) è stato convinto dal direttore Michele Mariotti a vestire i panni della druidessa più celebre de repertorio operistico: ottimo lavoro di persuasione, quello del Maestro pesarese, che si è reso così Deus ex machina di serate che verranno ricordate a lungo nella dotta, grassa e rossa Bologna. Confesso che nel momento dell’ingresso in scena della Devia, con l’impervio recitativo “Sediziose voci”, la mia prima reazione è stata quella di arricciare il naso: qui si aveva una voce certamente non drammatica, apparentemente non a proprio agio nei momenti di più alta tensione, che richiedono ben altro peso. Conoscendo la Devia, prevedevo altresì grandi cose nei momenti più lirici e tenui della partitura belliniana, così leopardiana nella sua mesta melodia. Era lecito, dunque, aspettarsi una doppia Norma, con le due anime della sacerdotessa piuttosto distinte fra di loro; cosa non raccomandabilissima, poiché un personaggio vero deve essere sfaccettato, non scisso. Ma, proseguendo, la prova della Devia è stata un continuo crescendo, di centratissima precisione analitica, con soluzioni notevoli anche quando l’abbandono poetico e l’ineffabilità cedevano il passo alla serrata concitazione. Con una perizia tecnica invidiabile dalla maggior parte delle interpreti nostrani, il soprano ligure sopperiva alle carenze di un registro medio-grave non corposo, appoggiando il suono perfettamente e risultando così credibile anche nelle invettive e nei passaggi più tesi. Oltre a questa “sorpresa” (ma quando gli artisti sono grandi si chiama Meraviglia), la bellezza di una “Casta Diva” che forse sarà banale citare per via della sua celebrità ma che si è rivelata un capolavoro cesellato con l’abilità del miniaturista. La cabaletta successiva, “Ah bello a me ritorna”, era ricamata con una tenerezza che mai avevo sentito, libera dall’astio, quasi assorta in una contemplazione della felicità passata, in un auspicio di serenità futura. Dopo gli applausi scroscianti che hanno seguito l’esecuzione della celebre aria, non si è mai avvertito un momento di cedimento, mai una nota è stata lasciata al caso, tutto era massimamente rifinito e curato. Si è già detto molto di questa Norma: per alcuni la Devia è inadatta alla parte, mancando di vigore sufficiente a restituire il carattere più sacrale e altero della sacerdotessa, e quindi un’interpretazione completa. Io sono convinto che questa mancanza sia ovviata, come già detto, da un’abilità tecnica impressionante, che porta l’ascoltatore a un godimento e istintuale e concettuale. La mia opinione è che, in futuro, parlando della storia interpretativa di Norma, non si potrà prescindere da questa lettura della Devia, non dico già di riferimento assoluto, ma di certo una delle migliori nei primi quindici anni degli anni 2000.
ll discorso sulla cantante debuttante mi costringere ad una più breve analisi delle prove degli altri artisti. Prove di buon livello, quando non buonissimo, come nel caso dell’Adalgisa di Carmela Remigio, perfettamente in parte anche grazie a un timbro di colore leggermente “acerbo” che ben si addice alla giovane e inesperta fanciulla. Se poi si aggiungono varietà di fraseggio e padronanza dell’emissione, si può essere più che soddisfatti. Aquiles Machado era un Pollione cui mancava l’accento stentoreo, ed anzi ci offriva un proconsole infantile: bene sottolineare l’immaturità del personaggio, come se si trattasse di un Pinkerton in praetexta, ma gli acuti sembrano metterlo in difficoltà, uscendo schiacciati e bruttarelli. Nella parte di Oroveso ha fatto il suo Sergey Artamonov, che la natura non ha beneficiato di un timbro eccelso. Nessuna infamia, comunque, per lui, anche se i suoni gravi non sempre erano piacevoli, come il vibrato molto stretto. Fra l’altro a lui era affidata l’aria scritta da Wagner: nuovo omaggio, molto interessante, al compositore che con Verdi spegne le duecento candeline.
L’inserimento di questo brano è dovuto al volere del Direttore Michele Mariotti, ancora una volta protagonista dal podio di una lettura attentissima ai particolari. Dirigere Bellini è un mestieraccio di una difficoltà inimaginabile, perché si rischia di rendere pallida una tavolozza sfumatissima. Mariotti garante, il catanese può dormire però sonni tranquilli, perché la sua partitura è eseguita con fantasia. Gli accompagnamenti si snodano con un ampio respiro, quasi autonomo eppure in sintonia con il palco, l’agogica è sempre coerente con il dramma, i colori sono cangianti (come suonano bene i violoncelli dell’Orchestra del Comunale!). Si capisce senza difficoltà l’autentica venerazione che Wagner nutriva nei confronti di questo capolavoro titanico.
Riguardo all’allestimento di Federico Tiezzi (quello storico del Petruzzelli, ripreso a Bologna non molti anni fa) dirò che non si tratta certo di una macchina teatrale infallibile, e il suo pregio sta sostanzialmente nel fatto che l’azione procede senza troppi intoppi, benchè la sagoma luminosa d’albero che scende dall’alto nel primo atto sia davvero antiestetica. I fondali di Mario Schifano, prendono spunto dalla foresta sacra dei galli, ma, seppur belli, sembrano messi come tappabuchi un po’ dappertutto, anche quando non hanno nulla a che vedere con ciò che avviene in scena.
In ogni caso il pubblico ha apprezzato molto questa produzione storica. Tant’è vero che, al termine della recita, l’applauso scroscia entusiastico, a sancire il trionfo della Devia e della sua Norma.
Michele Donati