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La culture war alla luce del “mal d’archivio” di Derrida

La guerra sociale sulla cultura è sempre più davanti gli occhi di tutti. Cosa può dirci Jacques Derrida a questo proposito?

6 minuti di lettura

Introduzione: chi cancella chi?

Non si sa bene quando i venti della culture war abbiano iniziato a soffiare sulla nostra civiltà. Per quanto sia facilmente immaginabile l’antichità di un tale processo, tutti noi ci siamo trovati spaesati, qualche anno orsono, quando -improvvisamente- tutto il patrimonio culturale, che ai nostri occhi è sempre sembrato scontato, venne chiamato tutto d’un tratto davanti ad un tribunale arrabbiato, digitalmente ubiquo, che si arrogava il diritto di decidere della vita e della morte della storia, della cultura e dell’identità.

Recentemente, lo spettro della cancel culture è riemerso quando la nota casa editrice britannica Penguin ha annunciato una revisione dei libri di Roald Dahl, da cui vengono espunti alcuni termini che -apparentemente – sono stati valutati inaccettabili.

Prima di correre a condannare questa operazione, che, agli occhi della gran parte, appare come una vera stupidaggine, bisogna tenere in conto l’altro lato dello spettro politico. Oltre a questa polarizzazione -per così dire- a sinistra, oltre a questa radicalizzazione progressista che viene indicata col termine wokeism, si staglia, come sempre in politica, il contro-movimento verso destra, dove -è noto- si assiste ad un proliferare di teorie complottiste (di tendenze fondamentaliste cristiane) che ipotizzano una sorta di crociata contro la civiltà occidentale. L’espressione più notevole di questo dissennato movimento reazionario è la teoria di QAnon.

Critici moderati hanno correttamente affermato che, alla fine dei conti, non sussistono vere e profonde differenze fra il movimento Woke e QAnon. Certamente, vi è un’irriducibile distanza sui temi, sulle direzioni ma, come spesso accade, radicali opposizioni di carattere politico possono apparire soltanto nel momento in cui ci si trova inconsciamente concordi su un gran numero di atteggiamenti e sul modus operandi.

Sembra di essere d’innanzi, da un lato, ad uno slancio progressista che ci appare irrazionalmente distruttivo ed iconoclasta e, dall’altro, ad una parimenti irrazionale chiusura dogmatica e torsione identitaria che termina per disconoscere il senso stesso dell’identità. Schiacciati fra questi Scilla e Cariddi dei nostri giorni, non abbiamo altra via possibile che quella di cercare di rivolgerci all’armamentario concettuale del nostro pensiero nella speranza di poter rompere l’assedio che il nostro tempo sembra intraprendere.

Derrida e la doppia funzione dell’archivio

L’espressione culture war può essere letta in un gran numero di significati: guerra della cultura, nella cultura e sulla cultura. Alla luce di ciò, si scopre con piacere l’esistenza di un testo di Jacques Derrida (datato 1995) che promette di spiegare le «logiche del mondo della cultura e della sua storia», questione che il filosofo franco-algerino riassume nell’espressione archivio. Da cui il titolo del testo Mal d’archive. Une impressione freudienne (tr. it. Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, (a cura di) G. Scibilia, Filema, Napoli 2005).

Proviamo ad associare ad un’immagine la parola «archivio». Con ogni probabilità, tutti noi ci figuriamo degli scaffali polverosi su cui sta schierata una lunga linea di vecchi tomi ingialliti. Derrida non aggiunge nessun altro significato ulteriore alla parola «archivio», si limita ai suoi due elementi costitutivi: la storia e la cultura. Questi si presentano coniugati sotto forma di una «storia essenziale della cultura» (ivi., p. 48); in ciò consiste l’archivio. Una caratteristica cruciale dell’archivio è il potere di consegna, la capacità di trasmettersi da una generazione ad un’altra e così, di saldare un’unione fra queste.

Per questo l’archivio è dichiarato portatore di una «forza incontestabile» senza cui «non ci sarebbe più storia essenziale della cultura, non ci sarebbero più questioni di memoria e di archivio, di patriarchivio e di matriarchivio, e non si comprenderebbe nemmeno più come un antenato possa parlare in noi» (ivi., p. 47-48).

In questa citazione di Derrida vediamo svariate questioni che tratteggiavamo prima: «come un antenato possa parlare in noi» è, precisamente, la questione della culture war. Ciò vale tanto per la trincea conservatrice -che vuole affermare una sorta di identità assoluta fra l’antenato e noi– quanto per quella woke, che enfatizza le questioni di patriarchivio e di matriarchivio, e passa ad un severissimo vaglio critico le opinioni dell’antenato.

È lo stesso Jacques Derrida ad indicare questa scissione: «[l’archivio] è ad un tempo istitutore e conservatore. Rivoluzionario e tradizionale» (ivi., p. 17).

Passato, presente e futuro dell’archivio

Richiamiamo ancora una volta l’immagine dell’archivio che menzionavamo prima: si sarebbe portati a pensare che l’archivio sia solamente passato. Questa visione, tuttavia, disconosce la natura dell’archivio e, come vedremo in seguito, è una lettura propria di quelle forze opposte e parimenti distruttive che indicavamo in apertura.

Nel testo, Derrida si scaglia precisamente contro l’idea secondo cui «lo storico parla solo del passato». Piuttosto che seguire una tale posizione ingenua, dobbiamo pensare che nell’archivio i confini fra passato, presente e futuro cadono. Ora, sembra possibile aggiungere un’ulteriore argomentazione a rinforzo di questo punto, un’argomentazione implicita nella risposta ad una domanda fondamentale: perché costruiamo archivi?

Richiamando Freud, Derrida identifica nella pulsione di morte (Thanatos) l’impeto a distruggere che «non spinge solo all’oblio [ma] impone anche la cancellazione radicale, lo sradicamento di ciò che non si riduce mai alla mnémè o anamnésis, ovvero l’archivio» (pp. 21-22). La pulsione di morte è l’oblio latente che minaccia tutto ciò che è stato conquistato; di conseguenza, l’archivio sarà il contrario di tutto ciò: contro l’impulso interno a distruggere, si ricorrerà ad un supporto esterno consegnabile (un libro, una statua, un segno in generale) in grado di garantire la ripetizione. Questo è l’archivio.

Archivio e oblio, conservazione e distruzione. Sono uno l’antitesi dell’altro ma, al contempo – poiché uno implica l’altro- sono radicalmente interconnessi. La pulsione di morte è condizione a priori dell’archivio (si parla di un’ «estetica trascendentale» dell’archivio). Derrida è lapalissiano sul punto:

in ciò che permette e condiziona l’archiviazione, non troveremo mai niente altro che ciò che espone alla distruzione, e in verità minaccia di distruzione, introducendo a priori l’oblio e l’archiviolitica nel cuore del monumento. […] L’archivio lavora sempre e a priori contro se stesso

(ivi., p. 22).

Il mal d’archivio è, così, questa patologia della conservazione, del salvataggio dalla distruzione e, al contempo, della reiterazione della minaccia distruttiva. Dice Derrida «non ci sarebbe certo desiderio d’archivio senza la finitezza radicale, senza la possibilità di un oblio» (ivi., pp. 30-31).

Questa è la ragione per cui l’archivio non ha a che fare unicamente con il passato: in quanto resistenza all’infinita minaccia della finitezza, l’archivio ha un compito infinito che trascende il momento presente ed unisce, in un unico ordine, passato, presente e futuro. Insomma, l’archivio non è un concetto archiviabile, non può essere sospeso, né oggi, né mai.

La libreria personale di Jacques Derrida, foto disponibile qui

Conclusione: spettralità ed avvenire ovvero ciò che oggi si disconosce dell’archivio

In apertura, abbiamo promesso di leggere il fenomeno della culture war alla luce di un testo di filosofia della cultura di Jacques Derrida. Uno degli scopi dichiarati era quello di mostrare in che maniera, sotto un’apparente distanza ideologica, tanto la trincea woke quanto quella reazionaria condividano una medesima impostazione di fondo, una certa tendenza che potremmo definire tendenza a disconoscere l’archivio.

Dopo aver sottolineato come non si possa fare a meno dell’archivio, appare opportuno richiamare due ulteriori concetti di Derrida per tentare di capire che cosa, precisamente, dell’archivio venga disconosciuto oggi.

Per quanto concerne la barricata progressista, dobbiamo affermare che essa disconosce la spettralità dell’archivio. La nozione di spettro è introdotta da Derrida per espandere ulteriormente quel punto che nel secondo paragrafo abbiamo solamente accennato: l’archivio permette all’antenato di parlare in noi. Bisognerà chiedersi in che maniera ciò sia possibile. «I morti non parlano?» Secondo Derrida, bisogna dire che i morti parlano senza rispondere, come una segreteria telefonica.

Fuor di metafora, la spettralità dell’archivio sta a significare che ogni interpretazione è sempre interpretazione di qualcosa. Ogni interpretazione può essere operata solo iscrivendosi nell’archivio, in uno slogan «non c’è meta-archivio». Così, qualsiasi desiderio di cancellazione radicale deve fare i conti con l’archivio e la sua struttura; il cordone ombelicale della storia non può essere reciso.

D’altro canto, l’idea di un cortocircuito identitario, di un’identità statica ed eterea costituisce un identico tradimento dell’archivio. Questo è già contenuto in nuce in ciò che è stato affermato prima: se l’archivio non è archiviabile, se esso non è una semplice questione di passato, se ogni nostra interpretazione non fa che iscriversi nell’archivio, allora ecco che l’archivio non può aver raggiunto la sua forma definitiva. Detta altrimenti, l’archivio non è identico alla memoria, intesa come ricordo statico dei differenti momenti attraverso cui l’identità è passata. Vi è sempre un alcunché di impensato nell’archivio che si apre alla possibilità di un avvenire.

Risiede in ciò, dice Derrida, il principio stesso della promessa: l’apertura dell’archivio «investe la storia del concetto, piega il desiderio o il mal d’archivio, la loro apertura verso l’avvenire, la loro dipendenza nei confronti di quello che viene. In breve, tutto ciò che lega il sapere e la memoria alla promessa».

Le necessità di questa promessa, l’urgenza assoluta di mantenere aperto un senso futuro, deriva dall’urgenza di essere in grado di fornire un senso all’archivio di domani; è una necessità legata al potere di consegna di cui siamo investiti, la stessa consegna che dell’archivio ci rende, volens nolens, figli, e ci impone di scrivere un’altra pagina di storia.

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Giovanni Soda

Classe 2000, ho rinunciato a studiare finanza per fare filosofia, sogno di scrivere per vivere e sono fermamente convinto che concetti, idee e pensieri di ieri riescano a spiegare il mondo di oggi meglio di quanto facciamo noi.

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