Grandezze immensurabili
La fisica insegna definizioni di grandezze tali in quanto misurabili con la rispettiva unità: da questa inequivocabile accoppiata, che risente senza dubbio della volontà di spiegare in modo chiaro il sapere fisico, deriva forse la tendenza a servirsi delle medesime unità di misura per esplicitare anche ciò che non ha nulla a che vedere con la possibilità di essere misurato, calcolato.
Così la memoria è diventata la capacità di memorizzare, un contenitore da riempire. Al di fuori di metafora, il senso figurativo rischia di fraintendere il significato più intimo di ciò di cui si parla, plasmandolo per facilità divulgativa.
D’altro canto, essere consapevoli dell’ineffabilità di ciò che fisico non è, non significa ridursi al silenzio, bensì accettare la sfida di non ridursi a una definizione, piuttosto cercare una qualificazione che nella parte riesca a trovare il rimando al tutto, a cui il frammento inevitabilmente appartiene.
Accettare il mistero
Saper cogliere un certo mistero non equivale a mistificare la realtà dietro un velo opaco, ma dispiegarla nelle infinite allusioni che sfuggono all’occhio, che squadra e incasella nella quantità ciò che è una qualità. Meglio chiudere gli occhi e riscoprire un’intelligenza che sappia leggere in profondità attraverso la ricreazione immaginifica piuttosto di ridurre il reale al visibile.
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Così in un’atmosfera metafisica – intimamente legata alle radici greche del termine, da metà, oltre, dopo e ta fysikà, le cose fisiche da fysis, natura – il racconto retrospettivo di un’anziana vedova diventa l’occasione per concedere spazio e tempo ad un rapporto mimetico con la realtà tale da non riproporne una copia, ma indagarne le sfaccettature più recondite.
Dal testo di Vitaliano Trevisan, va in scena al Teatro Carcano dall’ 8 al 12 dicembre Il delirio del particolare, per una riscoperta dello spazio e del tempo della memoria attraverso il gioco teatrale.
Ricostruire il presente nel delirio del particolare
L’ineccepibile Maria Paiato in quest’opera teatrale Il delirio del particolare, dà corpo e voce a un elegante racconto, che con il giusto ritmo, ripercorre la vita della protagonista senza ricoprire il passato, ammantandolo di quel grigiore plumbeo dei rimorsi o peggio ancora, dei rimpianti.
Nella produzione del Centro Teatrale Bresciano e Teatro Biondo di Palermo, la regia di Giorgio Sangati coglie la vividezza del flusso di coscienza nella forma di un dialogo intimo, acuto con la propria vicenda biografia e il ricordo diventa un meraviglioso pretesto: andare oltre al mero accadimento passato e saperne ascoltare l’eco che giunge sino al presente e si propaga al domani.
La visita alla villa al lago della protagonista, progettata dal grande maestro di architettura Carlo Scarpa, è l’occasione per focalizzare lo spazio della memoria e del ricordo. Con Carlo Valli e Alessandro Mor nelle vesti rispettivamente di storico dell’architettura e maggiordomo, il racconto del magistero di Scarpa, si offre come opportunità di sondare il passato da un presente disponibile, accogliente rispetto alla presa di consapevolezza della fugacità del tempo.
La meraviglia dell’in(de)finito
Ne Il delirio del particolare, l’immagine della villa disabitata si rianima con l’acuta ironia consentita fisiologicamente dalla scena dai sottili tratti metateatrali: il pubblico è il tacito e meravigliato interlocutore di attore e personaggio, intrecciati in un sottile dispiegarsi di aneddoti, punti di vista e confidenze nello stile impeccabile e sapientemente audace della Paiato.
Nello sfasamento temporale del flashback, lo spazio è costruito come punto di raccordo tra azione scenica e azione drammatica: il ritorno a casa apre le porte ad una riflessione tra arte e vita che non si esaurisce nella retorica, ma intrecciandosi alla sincerità dell’autobiografia risulta vivida e verace.
L’architettura non si limita a rivestire tematicamente la scena: diventa protagonista di una concezione spazio temporale, come dimensione intima e recondita che può trovare espressione -a patto di accettarne non tanto il risultato finale- visibile e chiaro, ma concedersi il privilegio di ammirare l’informità del progetto, l’imprevedibilità dello schizzo, l’incompiutezza ancora da realizzare.
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