Nel novembre 2019, la casa editrice di Pordenone Safarà Editore ha iniziato la pubblicazione delle opere dell’autore australiano Gerald Murnane, tra cui Le pianure (acquista). Lo scrittore è noto per la sua vita ritirata, quasi da eremita, a Goroke, nello stato australiano di Victoria, dove si è ritirato alla morte della moglie e dove svolge la professione di barista. Nonostante nel Belpaese non sia molto noto, sia in patria che negli Stati Uniti la sua opera ha ottenuto un ampio consenso da parte della critica e di celebri colleghi scrittori, tra cui Teju Cole, Joshua Cohen, Ben Lerner e il Premio Nobel J. M. Coetzee, al punto che è stata ipotizzata persino una sua candidatura al Premio Nobel per la letteratura del 2018.
Il romanzo in questione è Le pianure (titolo originale: The Plains), apparso per la prima volta in Australia nel 1982 e tradotto in italiano da Roberto Serrai, che magistralmente è riuscito a rendere in italiano quello che nella sua prefazione al libro lo scrittore Ben Lerner (autore pubblicato qui in Italia da Sellerio) definisce un periodare composto da frasi che «sono piccole dialettiche di tedio e bellezza, piattezza e profondità» e che «uniscono un’evidenza fattuale, che spesso si avvicina alla freddezza, con un intricato lirismo».
La trama del romanzo
La storia di questo romanzo, infatti, unisce alla realtà fisica e piatta delle pianure la dimensione della poesia, portando il lettore più volte a soffermarsi sul testo e a cercare di appropriarsi del paesaggio raccontato da Gerald Murnane, cercando di definirlo e di farlo suo. Come afferma sempre Ben Lerner: «questo è un libro dedicato ai piani del reale e del possibile, alla loro reciproca interazione, a come l’uno perseguiti l’altro.»
Il protagonista di questo romanzo, un cineasta senza nome proveniente da quella che gli abitanti della pianura definiscono «Australia Esterna», ovvero «gli sterili bordi del continente», si reca in una cittadina delle pianure per realizzare la sceneggiatura per il suo film, dal titolo Nell’interno, alla ricerca di «qualcosa che sembrasse accennare a un significato complesso, oltre le apparenze». Dopo aver interrogato alcuni latifondisti del posto e presentato loro il suo progetto, ed essersi documentato sulla storia della rappresentazione delle pianure attraverso vari media come la pittura, l’architettura, la poesia e la musica – una storia di tentativi falliti -, il cineasta incontra un latifondista, che decide di fargli da mecenate per portare avanti il suo progetto cinematografico per dimostrare che
tra tutte le forme d’arte solo il cinema poteva mostrare il remoto orizzonte dei sogni come un paese abitabile, e al tempo stesso trasformare paesaggi familiari in uno scenario vago, adatto solo ai sogni
e che il cinema è «l’unica forma d’arte che poteva soddisfare gli impulsi contraddittori dell’uomo delle pianure». Il cineasta, però, comincerà a nutrire dubbi sulla possibilità di catturare nei fotogrammi del suo film quel paesaggio. Ciò che alla fine comprende è l’impossibilità di dare un’idea oggettiva delle pianure, poiché esse sono «una comoda fonte di metafore per chi sa che sono gli uomini a inventare i loro significati», un paesaggio sì fisico, ma che assume un significato diverso di persona in persona, e l’unica cosa che può mostrare è lo spazio oscuro, il buio come «unico segno visibile di qualunque cosa vedessi al di là di me stesso».
Le pianure: struttura dell’opera e sua definizione
Come le pianure che descrive, anche quest’opera di Gerald Murnane sfugge a ogni definizione. Per definirla si potrebbe usare l’espressione saggio romanzato. Attraverso una vicenda di finzione, quello che vuole dimostrare Gerald Murnane scrivendo Le pianure ricorda la seguente riflessione del teorico del paesaggio Michael Jakob, che nel suo saggio Il paesaggio, edito Il Mulino nel 2009, scrive:
Il paesaggio è il risultato artificiale, non naturale, di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura. Questo rinvia a un paradosso: l’esperienza del paesaggio è, in generale e in primo luogo, un’esperienza di sé […] Il paesaggio non è inizialmente che quadro, rappresentazione artistica, e soltanto molto più tardi, soprattutto grazie alla prassi artistica, diventerà altra cosa: l’esperienza di un pezzo di spazio percepito in una sola volta da qualcuno.
(p. 29)
È proprio questo che Gerald Murnane vuole dimostrare: ogni tentativo di dare un’immagine oggettiva del paesaggio delle pianure è destinato a fallire, poiché la sua esperienza è personale e assume significati diversi in base a chi lo vive. Quello presentato è dunque un paesaggio, come ricorda Ben Lerner, «carico di possibilità». Ciò è evidente all’inizio del romanzo, quando il cineasta afferma che:
Quella che all’inizio era sembrata una terra piatta e scialba, alla fine aveva svelato leggere variazioni del paesaggio, e un’abbondanza di animali e piante quasi clandestine. Mentre si sforzavano di comprendere e descrivere le loro scoperte, gli abitanti delle pianure erano diventati insolitamente osservanti, avveduti e sensibili alle graduali manifestazioni di significato.
Ciò che fa accostare la forma di Le pianure a quella del saggio sono da un lato le forme verbali usate al passato, che esprimono una riflessione a posteriori delle ricerche condotte sulla rappresentazione delle pianure da parte del protagonista, e dall’altro la struttura tripartita del libro. Le pianure, infatti, è suddiviso in tre capitoli: il primo, corrispondente all’introduzione di un saggio, raccoglie tutti i tentativi falliti, da parte dei vari media, di rappresentare il paesaggio, e presenta la tesi del cineasta, secondo cui solo il cinema, quindi i nuovi media, possono ritrarre tutte le sfumature delle pianure; il secondo, invece, contiene lo sviluppo della tesi del protagonista, mostrato nel suo intento di scrivere una sceneggiatura per il suo film per meglio rappresentare il paesaggio delle pianure, ma che comincia a nutrire i primi dubbi sulla riuscita del suo lavoro; il terzo, infine, propone i risultati del lavoro del cineasta, vale a dire la testimonianza del suo fallimento nel rappresentare un luogo che sfugge a ogni definizione generale e che, dunque, nasconde in sé vari significati a seconda di chi lo esperisce, rendendo questa una realtà mutevole.
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Le pianure, dunque, può essere definito un ibrido tra saggio e romanzo che documenta la storia dell’uomo che cerca di sopraffare la natura attraverso definizioni universali, senza coglierne al meglio la sua realtà cangiante. L’uomo può solo testimoniare la presenza di non-luoghi, ovvero tante idee di paesaggio che si sovrappongono l’un l’altra e che vivono solo nell’esperienza del singolo.
I primi tentativi di definire le pianure
Come ben ricorda nella sua prefazione Ben Lerner, quello di Gerald Murnane è un «romanzo ecfrastico», che descrive, cioè, i tentativi da parte di opere di altri media di catturare la vera natura delle pianure. Queste opere, però, si rivelano subito essere dei fallimenti.
I primi esempi illustrati dal romanzo, ovvero la raccolta di poesie L’orizzonte dopo tutto e il dipinto Declino e caduta dell’impero dell’erba, presentano sin dall’inizio un’immagine delle pianure corrispondente al sogno, all’illusione, con forme «volutamente imprecise» e che «non corrispondevano a nessun stile storicamente noto», portando i più a considerare le immagini contemplate prive di collegamento con le vere pianure. Come sosterrà più avanti uno dei latifondisti che il cineasta sente parlare al bancone del bar, i pittori hanno rappresentato luoghi che «sapevano di essere in grado di accennare soltanto». Da qui la frenesia, da parte degli abitanti delle pianure, di dare un senso al luogo che abitano, come testimonia la nascita dei gruppi degli Orizzontisti e degli Uomini Lepre, divisione che si manifesta persino nella politica e nello sport, rappresentati rispettivamente dai colori verdeazzurro e giallo smorto.
Nasce, dunque, un’immagine bipartita di paesaggio: «uno visibile in continuazione, eppure mai accessibile, l’altro sempre invisibile anche se lo si attraversava ogni giorno in un senso e nell’altro». L’inaccessibilità delle pianure è dimostrata anche dal compositore, uno dei postulanti del bar in attesa di discutere il suo progetto con i latifondisti, che vuole tradurre in musica i suoni delle pianure. Una musica scaturita da «temi a malapena espressi», attraverso la quale il suo autore vuole mostrare «l’impossibilità di comprendere anche una caratteristica delle pianure così ovvia come il suono che ne usciva», nonostante speri ancora di udire un accenno della sua opera nella sala dell’albergo, invidiando chi riesce a cogliere «il gioco dei venti sopra miglia e miglia d’erba come niente di più che un intrigante silenzio».
Questo fallimento è ribadito più tardi nel dialogo tra il cineasta e il pittore di «paesaggi ispirati»:
Quando sentì del mio film, disse che nessuna pellicola poteva mostrare di più di quelle immagini su cui un uomo posava gli occhi quando aveva rinunciato allo sforzo di osservare. Io obiettai che la sequenza conclusiva di Nell’interno avrebbe messo in luce i più strani e i più durevoli dei miei sogni. Il pittore ribatté che un uomo non poteva sognare niente di più strano dell’immagine più semplice che veniva in mente a un altro sognatore.
Il fallimento della Settima arte e «il Grande Buio»
Questo dialogo tra il cineasta e il pittore sembra anticipare anche il fallimento del cinema, e quindi dei nuovi media, di cogliere le pianure nella sua interezza. Un presagio che si comincia a notare già tra le riflessioni scritte del protagonista:
Sarebbe stato semplice esplorare quelle pianure che iniziano alla fine di quasi ogni strada della città. Avrei potuto, tuttavia, possederle come ho sempre voluto possedere un tratto di pianura? […] Eppure mi torna un vecchio dubbio. Da qualche parte, esiste una pianura che potrebbe essere rappresentata da un’immagine semplice? Quali parole, quale macchina da presa potrebbe mostrare le pianure dentro ad altre pianure di cui ho sentito parlare così spesso in queste ultime settimane?
Se da un lato il cineasta è entusiasta all’idea di dimostrare come il cinema abbia più successo delle altre arti, dall’altro i suoi pensieri sono pieni di dubbi riguardo la riuscita del suo progetto. Consultando i vari libri della biblioteca del suo mecenate, giungerà presto alla conclusione che ogni opera d’arte raffigura solo un’immagine in fieri del paesaggio, che l’artista stesso a stento riesce a percepire, ma anche a spiegare, al punto che per il cineasta il vero problema nel realizzare il suo film, in particolare la sequenza finale con la protagonista donna che osserva la vastità delle pianure, è che «la giovane donna la cui immagine avrebbe dovuto significare più di mille miglia di pianura non possa mai capire ciò che voglio da lei».
L’aspetto più interessante salta fuori durante una conversazione fra il cineasta e il suo mecenate durante una escursione organizzata per fotografare le pianure. Si osservino i seguenti passi:
Posso concederti che anche vedere quelle pianure di cui abbiamo goduto per tutto il pomeriggio… anche questo è, in un certo senso, un segno di distinzione. Ma non farti ingannare. Niente di ciò che abbiamo visto oggi esiste, a parte l’oscurità.
Il Grande Buio. Non è forse là che si trovano tutte le nostre pianure? Sono al sicuro, però, del tutto al sicuro. E sul lato più lontano, troppo lontano perché io e te possiamo arrivarci, laggiù il tempo sta cambiando. I cieli sopra tutti noi sono sempre più leggeri. Un’altra pianura si spinge lentamente verso la nostra.
In questi passi, dunque, sta il messaggio del romanzo: che tutte le arti, anche quelle più moderne come la fotografia e il cinema, mostrano solo delle immagini sfuggevoli delle pianure, che allo stesso tempo fanno parte di un territorio privato, non condivisibile con gli altri. Nessuno può comprendere le pianure, poiché ogni artista mostra una sua idea personale di pianura, destinata presto a scomparire, lasciando il proprio autore «in un labirinto di giri di parole, senza che dietro di queste comparisse alcuna pianura». Il luogo che testimonia il protagonista alla fine del romanzo è:
un posto al di fuori dell’inquadratura, in una scena disposta da qualcuno che era egli stesso fuori dall’inquadratura. Chiunque, tuttavia, avrebbe potuto decidere che conoscessi il significato di ciò che stavo guardando.
Conclusione
Le pianure di Gerald Murnane testimonia, quindi, l’incapacità di dare un’immagine del mondo onnicomprensiva e fedele alla realtà fattuale. Questo perché, come spiega Michael Jakob, il paesaggio è un’esperienza individuale, che avviene una sola volta e che lascia spazio ad altre interpretazioni, dando vita a un reame di possibilità rappresentato dallo spazio oscuro che esiste al di là di noi stessi e che solo noi in quanto singoli individui possiamo riempire perdendoci in esso.
Se come sostiene Ben Lerner «ogni seria opera d’arte è destinata a fallire non appena diventa reale, per catturare il possibile», ciò che rimane da fare a un artista è, dunque, mostrare che «il mondo è un’altra cosa rispetto a un paesaggio», una realtà sempre inafferrabile e indefinibile, impossibile da catturare. Ciò che rimane è un territorio privato che dipende dall’esperienza del singolo e che non può essere condiviso: un luogo dell’anima.
Fonti:
Michael Jakob, Il paesaggio. Traduzione a cura di Adriana Ghersi. Il Mulino, Bologna, 2009
Immagine in evidenza: Photo by Holger Link on Unsplash
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